Quando si parla di circo la mente corre subito alchapiteau, al tendone imbandierato piantato a rallegrare luoghi spesso squallidi e periferici, a tanti caravan colorati tutt’intorno, un piccolo zoo al seguito e la pista di segatura. Eppure è da alcuni anni che il circo ha fatto irruzione sui palcoscenici, al chiuso del teatri e il nouveau cirque (il circo-teatro) è diventato un genere apprezzatissimo da pubblico e critica.

E, se una qualche primogenitura si deve affibbiare, questa va senza ombra di dubbio ascritta a Jean-Baptiste Thierrée e a Victoria Chaplin e al loro inossidabile Cirque invisible. Che è ritornato dalle nostra parti per quattro esauritissime repliche al Teatro Verdi di Pordenone, da stasera a martedì 4 dicembre.

dello spettacolo circense questo imperdibile Cirque invisible, dei numeri che lo caratterizzano – giocoleria, animali, giochi di prestigio, acrobazie – mantiene intatta la struttura. Con un valore aggiunto in più e che fa una bella e grande differenza: la poesia, l’incantamento, lo stupore, la meraviglia che non sono l’ammirazione o l’incredulità per il fenomeno e l’impossibile che sono da sempre l’essenza dei numeri del circo tradizionale.

Qui di fenomenale e di impossibile non c’è nulla: tutto scorre con una fluidità e una leggerezza da capogiro, tutto sembra a portata di mano e celestiale al tempo stesso, in un piacevolissimo cortocircuito dell’immaginazione e della fantasia che lascia senza fiato. 

Bastano poche cose, ai due artisti, oggetti comuni come degli ombrelli, delle ruote di biciclette, valigie coloratissime dal contenuto più vario, o secchi o piatti e bicchieri per dare vita a figurazioni fantastiche, strani esseri che si trasformano in un continuum spettacolare di grande fascino. Ecco allora che un abito settecentesco con crinoline e grandi gabbie laterali diventa un cavallo mitologico, un tubino stile Chanel diviene un pesce affamato con cui ingaggiare una lotta all’ultima esca, o ancora un mantello di strass che diventa vulcano oppure marchingegni astrusi che si fanno e si disfano sulla scena e, ancora conigli, colombe, papere perfettamente a loro agio sul palcoscenico….

Le soluzioni, tutte giocate tra oggetti costumi e corpi dei due interpreti diventano visioni straordinarie, immagini funamboliche, divertenti e surreali, in numeri che si alimentano della musica. Una danza di luci e colori che si vorrebbe non finisse mai.

Ma al di là di ricchezza e sontuosità e anche di scoperta e perseguita ingenuità delle apparizioni, al di là dei brevi e folgoranti quadri di un fregolismo che è tecnica e precisione strabilianti, a emozionare di più sono loro due: Victoria Chaplin e suo marito Jean-Baptiste. Addirittura commoventi, due vecchi bambini che amano ancora giocare con la fantasia per prolungare in un elisir di lunga e buona vita l’innocenza dell’infanzia. Alla faccia di tutte le diavolerie tecnologiche, degli effetti speciali e di quanto la modernità offre oggi allo spettacolo.

Qui tutto ha il sapore antico dell’artigianalità, delle cose fatte una per una, della cura per i detta. gli che compongono poi la bellezza dei quadri, dei tableaux vivants, che sono soprattutto un inno alla poesia. Lui è unclown caciarone e rumoroso che ironizza senza malizia però sulla tradizione del circo, imbrogliandosi nei giochi di abilità o nell’imbastire strampalati robot musicali, strane e improbabili biciclette su cui scorazzare in scena. Silenziosa, come sperduta in tanta abbandanza di giocattoli e stoffe e costumi, lei, la figlia del grande Chaplin di cui fa rivivere la grazia, disarmante e disarmata: quasi fosse la prima a sorprendersi di quanto riesce a creare sul palcoscenico.

Un mix irresistibile di bravura, grande lavoro alle spalle e immutata voglia di coinvolgere il pubblico e farlo tornare piacevolmente bambino. E ci riescono e il pubblico risponde, si lascia andare, punteggia lo spettacolo con battimani e risate ed esplode alla fine in lunghi e calorosissimi applausi. Dovunque Le cirque invisible vada in scena nel mondo.