Una volta, qualche anno fa, un esperto di circo, membro stabile della giuria stampa di un prestigioso Festival italiano legato al circo classico, mi disse a proposito di Paolo Casanova, in arte Clown Carillon: “Non è un clown”.

“E allora cos’è?” chiesi tra lo sbigottito e il sornione.

“Non fa ridere. Se non fa ridere, non è un clown.”

Da allora, periodicamente, questa affermazione mi frulla in testa, a riprova che le parole hanno un peso. Con questo articolo cercherò, in breve, di smentire questa e simili enormità, andando a indagare l’arte dei clown che non fanno ridere, quelli che alcuni chiamano genericamente “clown poetici” e che a me piace annoverare nella “clownerie del cuore”, una branca della clownerie contemporanea che utilizza archetipi legati all’emotività e al mondo interiore dell’essere umano.

Una premessa è necessaria. Nell’immaginario artistico contemporaneo, lontano dalla banalità di chi riduce il clown a macchietta comica, possiamo dire che la clownerie vive sempre dell’intreccio inscindibile tra il comico e il tragico, il riso e il pianto, il candore e la crudeltà. Questa dualità va oltre la distinzione storica tra il clown bianco e l’augusto: la clownerie diventa espressione artistica della complessità umana con tutte le sue inestricabili contraddizioni.

Più in particolare, possiamo dire che ogni vero clown esprime sé stesso, il suo animo profondo, seppur in modo mascherato, un’interiorità che può essere rappresentativa di alcuni sentimenti e modi di essere universali. Per rimarcare questo concetto prendo in prestito le parole di Jean Starobinski, psichiatra e critico letterario svizzero di lingua francese: “A partire dal Romanticismo (ma certamente non senza qualche segno premonitore) il buffone, il saltimbanco e il clown sono divenuti le immagini iperboliche e volontariamente deformanti che agli artisti piacque dare di sé stessi e della condizione dell’arte. È insomma un autoritratto camuffato”. Queste parole mi fanno pensare a un grande pittore contemporaneo poco noto al grande pubblico, Angelo Bordiga, che interrogato su chi siano i suoi soggetti, si tratti di una giovane sposa in bianco, di una donna discinta o di un Papa con i paramenti sacri, risponde immancabilmente: “Sono io, sono sempre io.”

Se consideriamo la clownerie un’arte performativa che permetta la piena espressione dell’individuo, non deve stupire possa prendere qualsiasi forma, anche affrancandosi dalla semplice ricerca della risata. Per capire questo concetto basta analizzare l’arte di Paolo Casanova, Clown Carillon, che ha calcato le piste di alcuni dei più importanti circhi al mondo, o di Slava Polunin, che con lo Slava’s Snow Show ha compiuto una rivoluzione copernicana nel mondo della clownerie. Chi abbia visto queste performance si è accorto che non mirano solo a far ridere il pubblico, ma a toccarlo nel profondo, commuoverlo, emozionarlo.

Togliamo subito un confondente: questi artisti non sono semplicemente dei mimi, anche se l’arte del mimo può far parte del loro bagaglio formativo. A questo proposito credo facciano fede le parole di David Larible, tra i più eminenti clown viventi, che pur facendo ridere – e molto – non possiamo considerare estraneo alla clownerie del cuore: “Un mimo ha un limite, un clown no. Il clown è uno spirito libero non solo nel circo, ma anche nel mondo dello spettacolo. Ma io non ho un messaggio per tutti, ognuno porta a casa quello che vuole. […] L’unica cosa che voglio dare è un’emozione, svuoto le mie tasche delle mie emozioni e il pubblico prende quello che vuole.”

Ma quali sono gli elementi in comune, i tratti distintivi della clownerie del cuore?

Per prima cosa abbiamo il viaggio emozionale. I clown di cui parlo sono inevitabilmente narrativi, non si limitano a ripetere singole entrée comiche; piuttosto costruiscono nei loro spettacoli racconti organici, che prevedono accadimenti e stati emotivi mutevoli; raccontano in pista o sul palcoscenico un percorso di carattere esistenziale. È inevitabile che suscitino emozioni che vanno al di là della risata.

L’altro aspetto fondamentale è la modalità espressiva, sincretica di varie arti e ricca di simbologie occulte, che vengono utilizzate per creare un potente impatto emotivo. È il regno della fantasia sfrenata, del superamento dei cliché, la fine dell’ortodossia: questi sconvolgimenti prevedono necessariamente la distruzione dei confini tra le varie arti e l’ingresso in nuovi spazi creativi.

Così nascono gli astrusi e sorprendenti congegni costruiti personalmente da Paolo Casanova, che utilizza anche elementi di nouvelle magie; il manichino dalle sinuose forme di donna che vola nell’aria, inseguito disperatamente in una scena angosciante; oppure il cuore rosso luminoso, pulsante, che Clown Carillon estrae dal proprio petto, come un uomo di latta perdutamente innamorato. Innumerevoli altri esempi di questa modalità espressiva, muta e potente, si possono trovare anche nello Slava’s Snow Show, dove il protagonista inizia le sue vicende mettendosi un cappio al collo, scoprendo poi che l’altro capo della corda è stato utilizzato per lo stesso terribile scopo da qualcun altro, perché al mondo non siamo mai soli e il nostro destino è inevitabilmente intrecciato a quello di altri esseri umani. Si potrebbero riempire decine di pagine analizzando questi muti significati.

C’è poi una terza caratteristica fondamentale, che separa questo tipo di clownerie da altre forme di clownerie contemporanea, altrettanto valide ma fondamentalmente diverse per inclinazione e poetica: la gentilezza.

A questo riguardo voglio ricordare gli ultimi versi di un epitaffio che il poeta francese Clément Marot scrisse nella prima metà del Cinquecento per la morte di un buffone, riportati dal critico francese Jacques Copeau e più recentemente citati in un articolo del Prof. De Marinis titolato “Visioni del Clown nel teatro del Novecento”:

Qui giace e riposa sotto terra
il gentile buffone Jehan Serre
d’ogni piacere ricercatore
e dal vivo gran giocatore
non di dadi o di birilli
ma di belle farse gentili.
In breve, quando entrava in scena
con una tunica sconcia,
la fronte, il naso e la guancia
coperta di farina bianca,
agghindato con una cuffia d’infante
o con un alto berretto trionfante
guarnito di piume di cappone,
posso asserire a ragione
che la grazia goffa del suo viso
ci rendeva così felici e gai
come si fosse in paradiso.

Questa gentilezza del buffone viene interpretata dal Prof. De Marinis come “arte del piacere” e “capacità d’innamorare”. Nell’epitaffio il buffone non viene ringraziato per aver fatto sganasciare dal ridere, ma per aver regalato attimi di paradiso, cioè per aver donato con la sua arte qualcosa che va oltre il riso: momenti di autentica felicità.

Personalmente credo che questa potenziale beatitudine che i grandi clown possono regalare (tutti i grandi clown, anche di diverse tendenze) dipenda da una forma di catarsi, ovvero dalla risoluzione dei conflitti presenti nell’essere umano. Questi processi sono inconsci e potrebbero essere studiati in termini psicanalitici ma, per fortuna, il pubblico può beatamente disinteressarsene: basta aprire bene gli occhi e farsi trasportare dalle onde impetuose dell’arte.

Una postilla. Ho citato, a titolo esemplificativo, solo tre grandi clown di fama internazionale; tuttavia, tra gli artisti della clownerie contemporanea non sono pochi quelli che potremmo annoverare – del tutto o in parte – nella clownerie del cuore, ovvero quella branca gentile, narrativa, che grazie alle sue potenti simbologie può regalarci tumultuosi viaggi emotivi e qualche luminoso raggio di felicità.