“E tu, quale musica ascolti?”. Il metronomo del cuore di Elisa accelerò. “La mia ti piace?” chiese Itzumi dai pantaloni larghi.
Elisa ignorava sia il rap sia la possibilità che un caschetto biondo potesse diventare il fulcro del mondo. Non le rispose, ma iniziò a spiarla negli intervalli a scuola, incastonare rime baciate su ragazzi elettronici.
Elisa, curiosa come un crescendo, divenne parte del cerchio che applaudiva Itzumi; divenne una delle adepte dal capo oscillato a tempo e incappucciato a mo’ di “sì”.
Copricapo che divenne sempre più scuro con il sopravanzare dei dinieghi di chi le stava attorno; copricapo che abbassò sempre più sul suo giovane viso, fino a oscurarle le giornate.
Cieca, seguì le coetanee, nella circumnavigazione del proprio io e sbatté contro le coste del proprio corpo, presagio di un campo di battaglia. “Per voi io chi sono? Un insegnamento morale, la presa della Bastiglia o una taglia di reggiseno?”.
Si arenò sotto a un palco. I bassi delle casse rimbombavano nel suo torace e lei, inglobata da quella folla magmatica che saltava e urlava, divenne emozione vivente, parte di qualcosa dov’era possibile perdersi senza essere cercata. Ci rimase anni, senza mai uscirne. Quando, tutta sudata, vide l’ultima amica andarsene, spensero il mixer e accesero le luci. Elisa e nessun altro sulla pista vuota, ignara di quale stagione avesse raggiunto e quali decisioni avesse preso senza accorgersene.
Il fischio che l’assordava mutò nell’incidere di un organo solenne.
I suoi genitori divorziarono in un incidente domestico.
E lei imparò a essere indipendente, a saltare gli oceani, a collezionare coinquilini, a cambiare lavoro, a divulgare idiomi, ad apprendere abitudini insolite e a drogarsi di sorrisi. Indossò tacchi, turbanti e temporali. Scrisse teorie sull’accostamento degli ingredienti culinari e prese a imporsi di giorno e a spogliarsi di notte, il tutto con estrema soddisfazione.
Eppure non riusciva a mettere in pausa il rumore che le strideva dentro.
Poi una musicista turca, con una lunga treccia bianca e una maglietta a righe. La giacca appoggiata sulle spalle e il bouzouki tra le mani. Aveva l’indolenza data dall’hashish ma la vera realtà stupefacente era la sua voce. Terminato l’ultimo rebetiko, quella notte d’estate, sotto un pergolato greco, prese una rosa e disse “silenzio per favore”, ne staccò un petalo e lo fece cadere al suolo.
Quando tutti se ne furono andati, Elisa si avvicinò al palco, sollevò quel petalo e lo riascoltò abbandonarsi verso terra e accordarsi con il nucleo infuocato all’interno del proprio petto.
Vestita di bianco come un derviscio, roteò con le braccia aperte, lieta di ballare, finalmente, da sola.

Racconto di Paolo Negri, illustrazione di Eugenio Broggi
Tratto da “22 Arcani circensi, freaks e simili”, Il Cavedio (2022) 
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