L’abituale camicia rossa, sotto alla giacca nera. Un classico per l’indagatore del dubbio. Come del resto era un classico avere giovani ragazze come clienti. L’ultima aveva una frangetta molto spirit of ‘69. Lo confermò anche il campanello quando sfiatò e ad aprire ci pensò Arpo, l’assistente.
Eppure, quando lei uscì dalla porta, il primo pensiero che venne all’indagatore non fu rivolto alle supposizioni legate all’indagine, ma ai ricordi: “Il circo o si vive o si guarda, non c’è una terza via.
E per viverlo devi farti ardere dalla passione!”. Questo gli disse il suo mentore allo spuntar della barba. Poi quella frase finì in una scatola. E la scatola diventò la base di una costruzione instabile fatta di altre frasi in altre scatole. E quella ragazza, con queste parole, vi si appoggiò pericolosamente: “Temo che qualcosa o qualcuno abbia rapito la mia compagna, qualcosa o qualcuno che non possiede l’unico movente che pratichiamo: la bellezza”.
A lui vennero in mente gli schiaffi, le sconfitte e i fischi. I contrasti, i premi mancati e la pervicacia spenta.
Così si recò nel luogo dove amava pensare: la torre oltre le nuvole.
Lassù trovò l’esposizione di una fotografa che gli chiese: “Il paesaggio lo si guarda o lo si cattura, o c’è forse una terza via?”.
Lui strinse il bestiario tascabile che si portava sempre appresso e girò per quelle istantanee. Si bloccò dinnanzi a una in particolare, tanto che gli fu detto: “Non stia troppo a fissarla, potrebbe cascarci dentro come un Narciso distratto”. Ma lui riemerse con un guizzo: “Questa dove l’ha scattata? E quando?”.
E corse giù per le scale e salì sul maggiolone. Alla brughiera spense l’auto e si nascose dietro ai cespugli.
Vide la ricercata, una ragazza araba che giocava coi serpenti.
Come si muoveva! Sinuosa come certi rigagnoli di stelle, notturna come il nero gatto ghiotto di colori, primordiale come una cosmogonia e tangibile come una smania scottante di traslare in un altro sentire. Dal proprio corpo, dal proprio io.
L’indagatore rincasò percorrendo la strada dei pensieri piena di bivi. L’indomani telefonò a Tiresia e gli pose 99 domande. Alla centesima l’indovino fece un giro su se stesso e a lui si aprì l’occhio dormiente.
Quando tornò la cliente a chiedere se avesse scoperto qualcosa, rispose: “Non deve temere. La sua compagna sta giocando con l’Ouroboros, perpetuo ricominciare ed eterno ritorno”. Allora le mani di lei iniziarono a volteggiare nel lungo foulard che pendeva dal collo, come se la sua arte si riflettesse e moltiplicasse in ogni gesto che faceva: acrobata aerea tra i tessuti. E lui, comodo fruitore di armonia etera.

Racconto di Paolo Negri, illustrazione di Eugenio Broggi
Tratto da “22 Arcani circensi, freaks e simili”, Il Cavedio (2022) 
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