Il Principe di Persia uscì dalla mia testa. A cavallo di un puledro, diretto verso il sole. Poi chiusero il sipario al teatro delle ombre.
Mi pagarono per il ruolo da cupola e me ne andai.
Incrociai per strada il Gran Guignol, mancava poco alla mezzanotte: o mi affrettavo o mi affettava!
Era il 31 dicembre 1899, ero a Parigi. Ero l’uomo proiettile!
Sparato verso gli astri, tra i fuochi dalla Cina, sarei stato l’ariete che buca il grande chapiteau del secolo! Indossavo un vestito aderente rosso fiammante con al centro una stella gialla e sulle spalle un drappo magico.
La gente ammutolì davanti a quella cannonata e mentre volavo sentii il riso beffardo dell’impresario che mi aveva ingaggiato: Mefistofele!
Scommetto sia stata una sua diavoleria a sospendermi in aria.
Per cento anni, di solitudine, immobile. Solo il mio mantello svolazzava e le mie iridi sgocciolavano.
Cento lunghi anni.
Allo scoccare del 2000 iniziai una folle caduta a una velocità mai raggiunta da uomo volante. Qualcuno espresse un desiderio. Il mio era di salvarmi e più perdevo quota e più diventavo piccolo.
L’impatto, tremendo, fu prima con una finestra (che si ruppe) poi con un portaritratti che cadde dal comodino ma non si infranse.
Chi mi trovò rimase allibito: dove prima c’era una gallina, ora c’era il busto di un uomo vigoroso con un elmetto a forma ogivale e l’oviparo in braccio: spennato.
Ma la curiosità non bastò per trattenermi. Fui scambiato con un videogioco a un mercatino dell’usato. Ricominciai a girovagare.
Mi pescò, con un sorriso, una ragazza a cui piacquero i miei baffi. E mi regalò a un amico pittore che passava le giornate nel suo atelier. Lui mi appese di fronte all’unico quadro non astratto di tutta quella galleria.
Feci amicizia con il solo personaggio di quell’immenso dipinto che vedevo tutti i giorni, tutto il giorno: un povero soldato dell’esercito napoleonico, disegnato sconfitto e stravolto. Ci raccontammo le nostre vicissitudini. Lui e la sua campagna sconfinata, io e la mia pollastra. Lui non aveva mai visto un circo, io una guerra.
Iniziammo una vita di soli racconti. I nostri e quelli dei ragazzi che si mettevano a parlare, certe volte appartati, dei loro segreti, ignari che noi li potessimo ascoltare.
Di loro non mi sorpresero le nuove tecnologie, sebbene stucchevoli, ma il primigenio bisogno di guardare il cielo stellato. E quei giovani, che facevano sempre un gran baccano, alle 22 di un venerdì, colorarono la volta dell’atelier di blu. Ci aggiunsero dei puntini bianchi e si sdraiarono a terra, in silenzio.
Io serrai le palpebre e sognai di perforarlo quel soffitto. Mentre il mio compagno agognava di scomporsi in un Kandinskij.

Racconto di Paolo Negri, illustrazione di Eugenio Broggi
Tratto da “22 Arcani circensi, freaks e simili”, Il Cavedio (2022) 
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