Nessun faro né retine di rapaci riflettenti nella notte, solo pioggia a martello sul mio impermeabile lacero. La desolazione scrosciante delle vie interrotta da un’insegna balbettante: Bar Teatro Nero. Il suo interno asciutto, deserto e sudicio.
La vidi. Seduta accanto al lavello con un strofinaccio. Era senza braccia.
Mi avvicinai con quell’eleganza che mi porto appresso, nei vestiti e nei modi, da sempre. Armeggiava bottiglie: “Non si faccia impietosire da quello che vede, faccio i migliori cocktail del circondario, lo sa?”.
Mi importava ben poco di quel che le mancava, così mi sedetti di fronte a lei. Mostrandomi i suoi piccoli denti irregolari, disse suadente: “Ci vorrebbe giusto un parapioggia questa notte, non trova?”. E mi allungò un cocktail dopo averci infilato un sarcastico ombrellino come decorazione: “Questo lo offre la casa”.
“Grazie ma bevo solo succo d’uva”.
Scoccò scocciata la lingua, prese una cannuccia e sottecchi mando giù tutto l’intruglio. Quando raggiunse la fine, sentii il risucchio di chi ne vorrebbe ancora. Poi la porta aprirsi, il muggito di una mucca troppo grande per quel passaggio e lo starnazzo d’ottone di tre oche clandestine tra le sue zampe.
Rigirandomi trovai un bel rosso. Me lo gustai.
E quando lo finii, dalle quinte comparve l’Uomo Corvo. Mi si sedette accanto e ordinò qualcosa da sorseggiare. Per sé e per me.
Non disse nulla e quando trangugiai l’ultima goccia, il frigo si aprì e uscì una ragazza bianca come la neve. Con lentezza mi toccò il naso e chiese: “E tu, quando ti sei spento?”. Per trovare la data, ordinai altro vino e compiuta la bevuta, qualcuno mi picchiettò le spalle: era un palombaro con il cordone ombelicale collegato a una botte di birra poco distante. Mi salutò poi andò a esplorare il mar di luppolo.
Non contai più quanti tulipani cristallizzati svuotai. So solo che appena ne terminavo uno, qualcuno spuntava dal nulla! Ah, un’altra cosa capii: il piastrellista aveva fatto un pessimo lavoro visto lo zizzagare che fui costretto a fare per andare in bagno!
Quando tornai in sala i dottori della peste avevano estratto i santini da gioco e il fisarmonicista chiedeva a suon di polka: “Sa a che ora passa il Transatlantico Rex?”. Io interrogai la pendola a muro e mi vidi riflesso nel vetro, non più con carnagione cadaverica ma con le gote rosse, come il mosto fermentato che mi prestavo a tracannare di nuovo, sempre più dubbioso della mia sobrietà.
Mi abbandonai sul divano accanto a una trampoliera. Le gridai nelle orecchie: “Sa che in ogni dove c’è un Museo a cielo aperto dell’umanità che vi ha vissuto? Io arrivo giusto da lì!”. Lei, con quella sigaretta accesa che mai si accorciava, mi rispose: “Sono muta, mica sorda, parli più forte!”.

Racconto di Paolo Negri, illustrazione di Eugenio Broggi
Tratto da “22 Arcani circensi, freaks e simili”, Il Cavedio (2022) 
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