Ci sono due specie di critiche, l’una che s’ingegna più di scorgere i difetti, l’altra di rivelar le bellezze. A me piace più la seconda che nasce da amore, e vuol destare amore che è padre dell’arte; mentre l’altra mi pare che somigli a superbia, e sotto colore di cercare la verità distrugge tutto, e lascia l’anima sterile.

Questa citazione di Luigi Settembrini, intellettuale del diciannovesimo secolo, svela quelle che potremmo definire “le due facce della critica”.

La sua posizione è certamente molto apprezzabile per artisti e produttori, che inevitabilmente temono la severità del giudizio critico e cercano apprezzamento o, addirittura, pubblicità. Tuttavia, la mia opinione è che il critico si dovrebbe disinteressare completamente degli interessi particolari e scrivere solo per il pubblico, che merita un resoconto veritiero e un’analisi per quanto possibile lucida e imparziale. Se da una parte è opportuno rivelare la bellezza, dall’altra non possiamo negare che esistano spettacoli brutti.

Credo che la prima regola sia non avere rapporti d’amicizia con artisti e proprietari di circhi. Queste relazioni condizionano pesantemente chi scrive, disgregando spesso la possibilità del giudizio critico. Non si tratta più della volontà di esaltare la bellezza, ma della difficoltà personale di muovere critiche, anche sacrosante, a uno o più dei propri conoscenti, sapendo che inevitabilmente farebbero squillare il telefono.

Per quanto mi riguarda, preferisco in generale non conoscere personalmente gli artisti, perché potrebbero risultarmi simpatici o antipatici: a me interessa solo la dimensione artistica, la maschera indossata in pista o sul palcoscenico, non la sfera privata. Al più mi possono incuriosire i percorsi formativi e i contesti culturali che hanno permesso la nascita della loro arte. Aspettare che sia finito lo spettacolo per andare dietro le quinte è controindicato; gli inviti a cena andrebbero sempre respinti.

L’unica cosa che ho sempre preteso è di essere accreditato come stampa: se devo acquistare il biglietto d’ingresso, mi godo lo spettacolo e non scrivo una riga. Chi non riconosce il ruolo del giornalista merita solo il silenzio, che forse è peggiore della stroncatura, se è vero il motto: “Parlatene bene, parlatene male, l’importante è che se ne parli”.

Questo non significa che si possa comprare una recensione positiva omaggiando il critico con un biglietto di prima fila. Chi ha questo tipo di pretese non ha nemmeno gli strumenti per capire di cosa stiamo parlando e non merita la presenza della stampa.

La critica seria, che viene esercitata su tutte le arti, non è sempre positiva: un’opera d’arte può essere innalzata o demolita e i pareri di diversi critici, anche autorevoli, possono essere differenti.

Il dizionario del cinema di Mereghetti, che casualmente ho sul mio tavolo mentre scrivo, non è una raccolta di pubblicità vuote e lodi sperticate, ma una trentennale disamina del cinema mondiale, con un personale giudizio su ogni film. In un lavoro del genere non c’è superbia, ma il coraggio di esprimere le proprie idee, argomentando puntualmente ogni valutazione.

Si parla spesso di Circo d’Arte in Italia, ma dov’è la critica di questo Circo d’Arte?

Tutti seguaci di Settembrini, ma non certo per amore, piuttosto per pavidità o interesse. Io stesso seguo il consiglio di Tamburino in Bambi, il vecchio cartone della Disney: “Se non hai niente di carino da dire, non dire nulla”.

Pochissimi hanno il coraggio della critica, anche quando lo spettacolo è palesemente difettoso. Non parliamo dei fatti di cronaca, dove non si muovono critiche neppure di fronte a situazioni grottesche, indifendibili. 

Forse, se vogliamo che il Circo venga riconosciuto davvero come grande Arte, questo atteggiamento andrebbe radicalmente cambiato; l’alternativa è ridurlo a intrattenimento leggero, senza tante pretese, oppure a una forma spettacolarizzata di atletica, dove i ginnasti hanno buffi costumi. In questo caso, effettivamente, la critica non serve.