Un’altra Ilaria. Questa recita sotto il livello del mare. Sul palcoscenico è bravissima. A raccogliere gli applausi e a infilarli nel vaso l’ha copiato dagli altri, è una novità. Così lei li annusa. E a uno degli scenografi, quello con la barba da vichingo, domanda: “Dov’è Davide?”. “L’ho visto! Ha le candele in mano e una giù per il naso, scende per la botola, quella del suggeritore, che con uno starnuto ha ammutolito il candeliere”. Proprio lì, dove il regista venne inghiottito dall’ultimo atto. E ora servono le chiavi per chiudersi dentro una pièce; chiavi che ha solo lui.
Per questo Davide lo cerca.
Il drammaturgo assolve i peccati d’amore all’ultimo spettatore, lo ringrazia, s’inginocchia e scrive. Anche Ilaria scrive, con il rossetto una frase sull’enorme specchio a forma di sole, che s’incendia e da cui sbuca Apollo in sella a una motocicletta fiammante garrendo “pista!”. Ilaria sbuffa poi esce dal camerino perché il suono di una fanfara in transito è sempre salvifico.
Eppure in corridoio non c’è musicista vivo. Neanche nelle quinte e nemmeno sul palco. Va in scena il silenzio dinanzi a nessuno. Allora lei si toglie le scarpe, è senza calze e scende in platea. Perché conta le poltrone e ogni volta che arriva a dieci, improvvisa una battuta che sul copione non c’è?
Una voce lontana la chiama, lei echeggia: “Davide sei tu?”. Alla diciassettesima fila, un filibustiere con pappagallo appare da una tenda, fa un inchino e le offre l’uscita di sicurezza.
Lei s’affaccia renitente e un enorme Barbanera le piomba alle spalle, l’avvolge con il suo mantello d’organza, la prende con sé e la carica su una barca ormeggiata sulla sponda del fiume, in tournée attorno allo stabile. La ingolosisce, le mostra uno scrigno pieno di palindromi e al suo solenne castello la depone su un trono, accanto a sé: “Quel che vorrai, avrai! Basta che reciti il ruolo di mia regina”.
Ilaria vive per la libertà e non sa cosa sia la disperazione. Chiede dell’argilla: “Mi renderà la pelle più morbida, mi conceda sette giorni”. Barbanera s’ingolosisce e l’accontenta. Lei con le mani crea Der Golem Queer Terracotta e gli dona la vita baciandolo in bocca. Lui ricambia: sradica la porta, tira un pugno in testa a Barbanera, scansa il pirata, accarezza il pennuto, voga con forza, distrugge la parete del teatro, lascia Ilaria sul palcoscenico, corre in camerino e si incipria le gote.
Il drammaturgo applaude il finale, il regista trova l’esegesi di un tavolo che non c’è e Davide dorme, conscio che dove si trova tutto può accadere: sia un’ondina persa in un bicchiere, sia un luchador in braccio a Don Chisciotte, l’addetto alla chiusura di un sipario trapuntato di stelle marine.

Racconto di Paolo Negri, illustrazione di Eugenio Broggi
Tratto da “22 Arcani circensi, freaks e simili”, Il Cavedio (2022) 
ilcavedio@ilcavedio.it