Ivan Poddubny e Anatoly Durov sono due figure popolari del circo russo. Il primo fu un lottatore invincibile, il secondo un pagliaccio audace. Ottennero il successo conoscendo umiliazioni e fame, disperazione e drammi. Sulla loro avvincente storia, “Il lottatore e il clown” apre un magistrale scorcio poetico.

Il film fu girato negli studi Mosfilm nel 1957, diretto inizialmente da Konstantin Yudin, che morì durante le riprese, e completato da Boris Barnet. La sceneggiatura è di Nikolai Pogodine. La vita dei due amici, le loro avventure, le gioie, le lacrime e i valori sono declinati secondo i canoni del realismo socialista con un risultato che, a distanza di anni, serba una suggestiva delicatezza.

E’ sin troppo evidente che Barnet volle esaltare il circo di stato e denunciare il circo pre-rivoluzionario, ritenuto cinico, conservatore e immorale.  E’ sin troppo evidente che il circo in sé sia usato come allegoria del capitalismo. Potremmo finanche dire che Poddubny e Durov affrontano un sistema di sfruttamento becero e degradante. Durov ha dalla sua la parola con cui sbeffeggia le autorità, Poddubny il corpo e le immagini dei suoi incontri con gli avversari incarnano il duello tra due psicologie contrapposte, il bene e il male, l’integrità morale e la scorrettezza, in ultimo socialismo contro capitalismo. Nonostante questo abbecedario dottrinale, il risultato non scade mai nella retorica stucchevole.

Ivan Poddubny, interpretato da Stanislav Chekan, vede morire la sua amata durante un numero sul trapezio, Durov, ovvero Alexandre Mijhailov, perde suo figlio in tenera età, eppure i due restano uniti, perseverano nei loro sforzi, ciascuno fedele alla propria morale, e vengono ripagati, contro le invidie e le macchinazioni che li circondano. Il loro trionfo non è solo professionale. L’uno, imbattibile lottatore capace di smascherare ogni scorrettezza, e l’altro, incorreggibile pagliaccio pronto a denunciare ogni prevaricazione, non sono semplicemente artisti, ma uomini che nelle avversità si innalzano a modelli di lealtà e coraggio.

Il film ricostruisce l’esibizione di Odessa in cui Durov ridicolizzò il sindaco, ripropone pure i due incontri di Poddubny con Raoul le Boucher, ma non è attendibile storicamente. A ben guardare il personaggio di Durov sembra un omaggio all’intera dinastia Durov. L’episodio in cui Poddubny aiuta Durov a fare un’esibizione di prova nel circo italiano, inoltre, è stato inventato, infatti, all’epoca in cui Poddubny iniziava la sua carriera, il Anatoly era già una star del circo. Dovremmo anche chiederci se davvero ci fu mai un’amicizia tanto solida tra loro.

Il pagliaccio triste, “re dei giullari, ma mai giullare del re!”, come amava definirsi, nacque nel 1864 a Mosca, rampollo di una nobile schiatta, rimasto orfano, col fratello Vladimir, fu iscritto all’accademia militare e qui maturò un rifiuto dell’autoritarismo che lo portò presto ad essere espulso. I due fratelli preferivano di gran lunga la commedia e le acrobazie circensi agli studi ed alle esercitazioni militari. Si legarono così al mondo dei balagan, sino ad approdare al circo Truzzi, all’epoca una delle compagnie più importanti della Russia, per dedicarsi completamente alla clowneria. Anatoly si ritagliò un’importanza crescente, distinguendosi per una verve d’arguzia e critica sociale insolita, che al fratello mancava. Interpretava monologhi irriverenti e zeppi di temi d’attualità, spesso recitava anche favole dai significati sottili e allegorici, ma il suo messaggio era chiaro al pubblico operaio delle grandi città, come a quello contadino dei villaggi. Man mano che i Durov acquisivano notorietà, però, subentravano le discordie e il loro rapporto si interruppe. Quando Anatoly morì, nel 1916, Vladimir era riconosciuto  all’avanguardia nei metodi di addestramento indolore degli animali. Fu lui a definirsi “re dei giullari, ma mai giullare del re!”. Chi condensò le abilità dei due, quella di clown politico e di addestratore, fu Anatloy Jr., che divenne un simbolo della lotta contro il governo zarista per i bolscevichi. Nel 1926 si stabilì nella città di Taganrog dove fondò il Teatro degli animali. Morì due anni dopo in un incidente di caccia vicino a Izhevsk, lasciando la sua eredità a degni nipoti.

Il gigante buono, il cosacco Poddubny, nacque l’8 ottobre 1871, in una famiglia di contadini, numerosa e povera. Lavorò nei porti del Mar Nero come scaricatore e qui la sua prestanza erculea finì con lo stupir tutti. Quando nel 1896 giunse a Feodosiya il circo di Ivan Beskorovayny, Poddubny poté ammirare i forzuti atleti che piegavano aste di metallo, sollevavano pesi e rompevano ferri di cavallo. Si decise a tentare la fortuna e una sera irruppe nell’arena sfidandoli. Quella volta si rese conto che dietro certe prove di forza c’erano non pochi trucchi, eppure riuscì a battere i lottatori nel combattimento con la cintura. Con questa impresa si guadagnò un contratto nello spettacolo. L’anno dopo si unì alla troupe di lottatori di Georg Lurich del circo italiano di Enrico Truzzi, a Sebastopoli. Iniziò così a dedicarsi ad ogni prova di forza, partecipò a gare di kettlebell ed a competizioni di lotta greco-romana. Per tre anni lavorò al circo dei fratelli Nikitin. Nel 1902 prese parte al campionato organizzato dal circo italiano di Scipione Ciniselli, a Pietroburgo, piazzandosi imbattuto al primo posto. Da campione russo si presentò al campionato mondiale contro il francese Raoul le Boucher a cui fu assegnata la vittoria nonostante i giudici avessero constatato la presenza sulla sua pelle di olio di oliva. L’anno dopo, però, a Parigi, ottenne la sua rivincita e divenne campione del mondo di lotta battendo le Boucher. Confermò il titolo in numerose occasioni, anche a Milano nel 1906, guadagnandosi i soldi necessari per comprare terre, mulini e negozi.  Continuò, però, ad esibirsi nei circhi russi, nazionalizzati dopo la Rivoluzione d’Ottobre, senza mai accondiscendere a scenari e risultati prestabiliti. Si fermò all’età di settant’anni. Celebrato da Mosca come un eroe nazionale, morì nel 1949, nella città di Yeysk, dove un obelisco in suo onore riporta: “Qui giace il bogatyr russo”.

La pellicola, dunque, ha molti elementi biografici e molti politici.

All’appassionato dice tanto. Numerosi furono i veri circensi coinvolti nelle riprese. Si ritraggono immagini dello spettacolo equestre di Boris Pavlovitch Manjeli, le scene al trapezio vedono l’artista Valentina Surkova, sono presenti pure il domatore Plokhotnikov ed il clown Lagranski, ma oltre a rendere note le vite di due stelle del circo, il film consegna la memoria di un’epoca dimenticata in cui il numero centrale nei circhi russi era quello della lotta e tutto il resto serviva a scaldare il pubblico.

La sfilza di lottatori presenti nel cast è lunga. Vi sono Prokopov, Sorokin e Kuznetsov, nonché Alexander Mazur che preparò atleticamente Stanislav Chekan e rivestì anche il ruolo di “Maschera Nera”. Il pubblico li amava perché erano i protagonisti di sfide epiche. Sotto lo zar la lotta circense e le prove di forza erano innocui intrattenimenti che distoglievano l’attenzione della gente da ogni problema, ma anche il governo rivoluzionario le approvò ravvisando in esse le caratteristiche di forza, purezza morale e patriottismo che intendeva promuovere. Queste competizioni entusiasmavano la gente e garantivano al circo un afflusso di pubblico ininterrotto perché un campione poteva essere rovesciato ad ogni spettacolo.

La domanda che ci poniamo è quale spazio possa avere nel circo di oggi la lotta. Si potrebbero inaugurare collaborazioni con gli artisti delle federazioni di wrestling, seguitissimi tra gli adolescenti, come intuito dal Circo Maya Orfei. Si potrebbero istituire tornei o costruire numeri tra l’ironico ed il goliardico, coinvolgendo i clown. Si può anche fare di più. Ci sono forme di combattimento di grande impatto, esotiche e incalzanti, dispute danzate come la capoeira, spettacolari come il kung fu, affascinanti come l’aikido. E’ possibile che la proibizione di numeri con animali apra la strada al ritorno di certi numeri?