Il serraglio del circo, ovvero una raccolta di animali feroci, o comunque rari e non domestici, tenuti chiusi in gabbia, rappresenta un’attrattiva storica nel mondo dello spettacolo itinerante.

Prima della diffusione dei mass media e dell’era della globalizzazione, gli animali esotici rappresentavano per il pubblico qualcosa di assolutamente sconosciuto, temibile e misterioso. Se fossimo in un’altra epoca, alla fine dell’Ottocento per esempio, troveremmo eccezionale e pericolosissimo l’ingresso del domatore nella gabbia dei leoni; la mole delle belve ci parrebbe enorme, le criniere lunghissime, il ruggito spaventoso.

L’uomo ha dovuto per millenni sopravvivere ai pericoli della natura selvaggia. Oggi, nella maggior parte delle aree del mondo, non dobbiamo più temere gli animali selvatici; al massimo, in alcune circostanze, dobbiamo avere paura dei nostri simili. Tuttavia, la morte per sbranamento resta una delle paure ataviche dell’essere umano.

Gli spettacoli con le belve feroci hanno sempre sfruttato questa paura recondita e messo in scena il suo superamento: il domatore entra nel serraglio delle belve feroci e, grazie al suo coraggio e alla sua abilità, ne esce vivo e incolume, vincitore. Lo spettatore si immedesima nel domatore, avverte più o meno consciamente la paura dello sbranamento, e sente un profondo senso di liberazione quando questa paura viene superata. Si potrebbe dire che è la rappresentazione della vittoria dell’uomo sulla natura selvaggia, il suo domino sulle altre creature viventi, persino sulle più forti e pericolose.

Succede tuttavia che questo meccanismo fallisca, che la rappresentazione non funzioni più. Capita sempre più spesso. Gli spettatori adulti non hanno più paura, e quindi neanche i loro figli. Guardano le belve in modo distaccato, ammirandone al massimo la bellezza estetica, la fisicità. Non percepiscono più alcun pericolo per il domatore (anche se il pericolo esiste), e quindi nemmeno per sé stessi. Quindi non trovano nessuna paura da superare, nessuna sfida da vincere: il numero finisce per risultare noioso.

Anzi, ad alcuni succede una cosa ancora più strana: non si immedesimano più con il domatore, ma con le bestie feroci. Questa è la morte di ogni divertimento: lo spettatore immagina la vita in gabbia dell’animale e, immedesimandosi, si sente egli stesso dietro le sbarre, costretto a sottostare alla volontà del domatore.

Questo radicale cambio di prospettiva sta rendendo i numeri di gabbia sempre meno apprezzati. Si potrebbe dire che oggi, in Occidente, questa rappresentazione allegorica della la vittoria dell’uomo sulla natura è diventata impopolare, ambivalente. Forse questo cambio di sensibilità è dovuto a una crescente consapevolezza di come il dominio dell’uomo sulla natura stia portando alla distruzione della stessa.

È come se questo tipo di spettacolo, nella nostra epoca, avesse assunto un nuovo significato negativo: l’uomo dominatore, non più eroe ma despota, esercita senza alcun diritto il suo potere sugli altri esseri viventi, facendo fare loro cose senza senso per il suo puro divertimento.

Esiste la possibilità tangibile che questa rappresentazione dell’uomo dominatore, Re della natura, stia diventando inaccettabile perché la civiltà umana sta distruggendo irrimediabilmente l’ambiente naturale in cui vive e non sembra disposta a fermarsi. Questo problema, fondamentale nella cultura di massa della nostra epoca, dove gli scienziati prevedono catastrofici cambiamenti climatici dovuti all’inquinamento atmosferico, non esisteva nei tempi passati. Vediamo sempre più spesso distese marine piene di plastica, reportage sul disboscamento selvaggio, distruzione sistematica di habitat naturali con conseguente estinzione di specie animali e riduzione della biodiversità.

Il Re si è rivelato nudo, sconsiderato e folle. Il domatore lo incarna senza saperlo e senza volerlo, ricordando inconsapevolmente al pubblico questa ingiustizia umana: il sopruso dell’uomo sulla natura.

È una tempesta perfetta per i circhi che hanno il tradizionale serraglio con le bestie feroci, un cambiamento del clima culturale forte come un uragano: riduzione della percezione del rischio e della sfida alla morte (quindi delle emozioni forti), inconsapevole messa in scena di un rito che ha cambiato radicalmente significato.