Al tramonto successivo la rivelazione di quel vecchio zoppo (Non vedi che vivi all’ombra di chi ti comanda?), Achmed rubò un’ascia dal magazzino e furtivo tagliò ciò che gli impediva di godere del sole. Mise quel nero a forma di re in una bottiglia e la sigillò con un tappo. Poi corse nel bosco e la sotterrò.
Il padre dopo qualche giorno si ammalò e morì.
Nella camera ardente il sapiente fece notare che l’approssimarsi della morte è annunciato da una mancanza inequivocabile.
Achmed, sentendosi colpevole, si precipitò a liberare la sagoma buia da lui imprigionata. Ma, giunto al nascondiglio, trovò il contenitore aperto e mastodontiche impronte nella boscaglia: quelle di un gigante!
Fu facile giungere alla sua baracca e, come un topolino, intrufolarsi al suo interno. Attraverso un pertugio, Achmed osservava il proprietario, vestito solo dalla cintola in giù, accasciarsi su uno scranno grande come una quercia. Allora prese un moccolo e s’appropinquò per cogliere dei respiri. La luce avvicinata alla ruvida pelle di quell’essere rese visibile l’improbabile: dentro la pancia si agitava quel che lui aveva mutilato!
Una scossa emotiva fece cadere della cera sui piedoni del dormiente.
Achmed scappò via da quella casa, ma non dall’ossessione per quel che aveva visto: per averne una certezza, andò al lazzaretto, recise la rachitica silhouette della più anziana, la mise in un recipiente adatto e, di ritorno, la posò sul tavolo del bevitore ingordo.
Alla sera due ospiti si dimenavano in quell’enorme corpo. Achmed raccontò a palazzo l’accaduto, nella speranza che qualcuno l’aiutasse. Molti si offesero, sua sorella lo burlò. Tanto da vedersi ghigliottinata la metà oscura della sua figura.
Quando lei morì, su Achmed fu mossa un’accusa, venne messa una taglia.
Il boia, alla ricerca del fuggitivo, si imbatté anch’esso nell’alloggio del colosso e visto quel che teneva dentro di sé, radunò i soldati. Quel pantagruelico innocente fu ucciso e squartato.
Le ombre, libere, non tornarono dai defunti, tutt’altro, iniziarono a tormentare i vivi.
Achmed, sempre più sotterraneo, andò dalla vetraia e si fece costruire un piccolo teatro e delle fiasche magiche. Catturò i tre fuggitivi volanti e li versò nella creazione soffiata nella sabbia da quell’artigiana tanto comprensiva. Fece i bagagli e di notte partì.
Da allora visse grazie allo spettacolo di quei prigionieri che si portava appresso. Col passare dei mesi, i soggetti delle rappresentazioni divennero sempre di più. Molte persone infatti, lungo la strada, consci di cosa comportasse, donarono volentieri la parte di sé che più li affliggeva.

Racconto di Paolo Negri, illustrazione di Eugenio Broggi
Tratto da “22 Arcani circensi, freaks e simili”, Il Cavedio (2022)
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