Ero atteso in Mongolia, dovevo solo prendere un treno. Uscii di casa e per abbellire il tragitto verso la stazione, mi arrampicai su un pluviale e passai sopra i tetti. Nell’attraversare la strada, su un robusto filo, mi imbattei, oh mon Dieu, in un pedone aereo!
“Dario! Che ci fai quassù? Quante automobili saranno passate dal nostro ultimo incontro?”. Ci abbracciammo.
Legammo amicizia alle Scuole Superiori, grazie ai versi di una canzone riportati sulla sua custodia porta disegni: Fili di Frankie NRG. Quanto mi piaceva! Dario studiava all’Artistico, ora era elettricista. Chissà se lo era diventato per risolvere la sua fissazione delle “luci accese”… “Ricordi? Amavo osservare le finestre delle case alla sera, quando si coloravano di giallo artificiale. Quell’accensione mi portava a credere che al loro interno ci fosse qualcosa di più interessante rispetto alla mia dimora”.
Io da perito elettrotecnico ero diventato funambolo, un bel cambio di voltaggio. Non avevo delle ossessioni irrisolte, ma una sfilza di occasioni andate in frantumi per poco equilibrio interiore. Per non aggiungerne una alla lista, lo salutai e corsi verso il convoglio.
Finii dalle belle Valzer, affannato e rancoroso nella loro “Osteria del treno perduto”. L’Azzurra all’ingresso girava la manovella di un grammofono da cui usciva un profumo che acquietava l’ansia del viaggiatore smarrito; la Rossa cucinava; la Bionda serviva ai tavoli.
Le raccontai quel che mi era successo. E lei commentò: “I treni sono come gli amici, perso uno, ne prendi un altro!”.
Pagai, chiesi gli orari del giorno dopo e mi incamminai verso casa.
Entrato in sala, trovai un buco nel pavimento. Mi guardai attorno: non c’era nulla fuori posto e il soffitto era intatto. Presi una piccola boccia. La cavità la inghiottì senza emettere suono.
Allora la coprii con una tavola prima che qualche animale uscisse all’improvviso. Inquieto mi addormentai.
Sognai di essere in quella stessa stanza, di avvicinarmi a quella sinistra novità, di introdurci la mano e di estrarre della stoffa nera. Tiravo e tiravo, il tessuto non finiva mai fin quando il locale ne fu così saturo da soffocarmi.
Mi svegliai di soprassalto. Cercai una matassa nel cassetto, tagliai un pezzo di filo e, dopo aver spostato l’asse, lo fissai con dei pesi sopra quell’apertura inspiegabile.
Ero pronto per l’attraversata! Con l’indice e il dito medio della mia mano destra, come fossero due gambe, percorsi quella voragine in equilibrio.
Dopotutto ero un funambolo. E quello era il mio modo di vivere la vita e i suoi misteri.

Racconto di Paolo Negri, illustrazione di Eugenio Broggi
Tratto da “22 Arcani circensi, freaks e simili”, Il Cavedio (2022) 
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