Nella rubrica odierna percorriamo il nostro cammino, oltre al consueto appuntamento della rubrica il mondo del “Circo” nel “Cimena” ma, come la volta scorsa accennato, ci siamo incanalalti in una “rubrica nella rubrica”, a cura di Fabrizio Colamartino. Ci stiamo interessando, in particolare, della figura del clown nel cinema, tra verità della scena e menzogna della vita. Di seguito riportiamo la seconda parte.

 

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La clownerie eversiva dei fratelli Marx

Se le due più importanti figure di comici statunitensi dell’era del muto portavano avanti un discorso critico su temi universali come la natura dell’animo umano e il suo rapporto con la società, le sue strutture e le sue regole, è significativo segnalare come, pochi anni dopo, in un panorama politico ed economico profondamente mutato, altre figure clownesche rubate da Hollywood al vaudeville imponevano al cinema un genere di comicità decisamente diversa, molto più anarchica e sovversiva, capace di prendere di petto la presunta razionalità borghese e sovvertirla totalmente con inedita aggressività. Nel corso degli anni Trenta i fratelli Marx costituirono un superamento a piè pari della comicità del muto, basata essenzialmente sull’azione, a vantaggio di una satira feroce, fondata su dialoghi corrosivi e sull’uso del nonsense, derivata essenzialmente dalla tradizione umoristica ebraica. Se la comparsa dei dialoghi sembrerebbe allontanare le performance del gruppo dalla sfera clownesca, l’estrema caratterizzazione fisica di ognuno dei componenti, la loro gestualità irruenta, il loro agire sempre a sproposito, dando tuttavia la sensazione di un’estrema sicurezza in sé stessi, ne fanno dei moderni giullari capaci di portare scompiglio ovunque. Groucho, occhialuto e baffuto, aggressivamente ironico, dotato di un eloquio basato sul continuo uso dell’allusione e del nonsense, Harpo, vagabondo muto, ingenuo e lunare, con una grande parrucca riccia e una tromba per automobile in tasca, Chico, caratterizzato da un improbabile accento italiano e dal fare sbrigativo e plebeo (specie con il gentil sesso), sono dei veri e propri corpi estranei pronti a sabotare le situazioni più formali e codificate e a mettere in ridicolo proprio le figure che incarnano l’autorità, la legge, l’istituzione.

Non è un dato nuovo nell’ambito della clownerie cinematografica: anche Keaton e Chaplin (più quest’ultimo a dire il vero) si trovavano spesso alle prese con rappresentanti della legge e dell’autorità, tuttavia all’interno di un rapporto che non metteva mai completamente in dubbio il ruolo sociale di queste figure. Nel caso dei fratelli Marx, al contrario, si giunge all’affronto e a una vera e propria ridicolizzazione dei personaggi e delle situazioni canoniche, non più a partire da meccanismi comici basati sull’azione, bensì in virtù di dialoghi apparentemente privi di senso ma in realtà decisamente corrosivi. In più, nelle due personalità più preminenti della famiglia Marx[I fratelli erano, in realtà, cinque: i già citati Harpo, Groucho, Chico e i meno noti (e anche meno presenti sulla scena) Zeppo e Gummo. Il gruppo era guidato, poi, dalla madre, Minnie Shoemberg, figlia a sua volta di due artisti tedeschi immigrati in America: Fanny, suonatrice d’arpa e Lafe, prestigiatore e ventriloquo.], ovvero Groucho e Harpo, si sviluppano due modalità opposte di comunicazione. Da un lato, il logorroico Groucho elabora un uso della parola che, all’interno delle convenzioni (cinematografiche e sociali) degli anni Trenta, vuole restituire al linguaggio il suo vero ruolo di mezzo di comunicazione: i suoi interlocutori, prigionieri degli schemi sociali consolidati che attribuiscono alla verbalità un puro e semplice valore convenzionale, vengono travolti dalla “logica stringente” (si tratta, in realtà di nonsense, che spiazzano) di Groucho, ne restano prigionieri, sono costretti ad arrendersi. Nel caso di Harpo ci troviamo di fronte a una condizione ancor più estrema, ovvero la negazione della possibilità di comunicare con gli altri, se non altro attraverso l’uso simbolico della parola: ostinato nel suo mutismo, il buffo personaggio è costretto a investire fisicamente i propri interlocutori con ciò che non può nominare e a saturare di oggetti fuori luogo gli ambienti della convenzionalità borghese. I set preferiti per le commedie dei Marx sono grandi alberghi (The cocoanuts, regia di Robert Florey e Joseph Santley, usa 1929), navi da crociera (Monkey Business, regia di Norman Z. McLeod, usa 1931) teatri (Una notte all’opera, regia di Sam Wood, usa 1935), palazzi principeschi (La guerra lampo dei fratelli Marx, regia diLeo McCarey, usa 1933), ovvero i luoghi della convenzionalità sociale, in cui vengono messi in scena i rituali del conformismo diffuso e che vengono sconvolti dall’irruzione dei fratelli. È sintomatico che, l’unico dei loro film ambientato in un vero e proprio circo – At the circus – sia anche uno dei meno efficaci, il più scontato: come anticipato poc’anzi, l’azione devastante dei Marx, che aveva trasformato gli ambienti dominati dal formalismo borghese o aristocratico in vere e proprie piste da circo, sotto un vero tendone risulta depotenziata, neutralizzata, in alcuni casi azzerata.

 

Fellini: la verità di una finzione più forte della realtà

Nello sketch musicale messo in scena da Chaplin e Keaton in Luci della ribalta la dicotomia bianco/augusto emerge con sufficiente evidenza, anche se non è così esasperata come vorrebbe la tradizione: «il primo è l’eleganza, la grazia, l’armonia, l’intelligenza, la lucidità che si propongono moralisticamente come le situazioni ideali, le uniche, le divinità indiscutibili. […] L’augusto, che è il bambino che si caca sotto, si ribella a una simile perfezione, si ubriaca, si rotola per terra e anima, perciò, una contestazione perpetua».

La citazione è tratta proprio da I clowns, un documentario (in realtà moltissime sono sia le sequenze che ricostruiscono situazioni come se fossero “dal vivo”, sia quelle esplicitamente di finzione) girato da Federico Fellini sul mondo dei clown di antica scuola (i Fratellini, i Bario, i Martana…): qui l’autore fa i conti con una suggestione della propria infanzia, ovvero l’arrivo del “Circo Pierino” a Rimini, alla base di buona parte della sua poetica e dei suoi personaggi più riusciti, primo fra tutti quello dell’artista girovaga Gelsomina, protagonista di uno dei suoi capolavori, La strada, di molte delle figure del suo primo film, Luci del varietà (storia di una sgangherata compagnia d’avanspettacolo nell’immediato dopoguerra), del suo ultimo film, La voce della luna (interpretato da due grandi attori-clown italiani come Paolo Villaggio e Roberto Benigni), ma anche del suo primo grande successo, Lo sceicco bianco: come non scorgere nel volto “inceronato”, nell’abito candido e nelle movenze melliflue di Alberto Sordi i residui di un bianco infantilmente vanitoso, cinico e viziato?

Del resto, tutto il cinema del regista riminese è stato da sempre etichettato come grottesco, paradossale, eccessivo, tragicomico e, infine, spesso e volentieri clownesco: tutti i suoi personaggi più riusciti gravitano in qualche modo attorno al mondo dello spettacolo, a una “scena” che bisogna riempire attirando l’attenzione del pubblico, in un modo o nell’altro e tutti alternano, nel volgere di poche inquadrature, caratteristiche di eccessivo entusiasmo e smodata ilarità[Come, ad esempio, il personaggio di Fellini forse più lontano dallo stereotipo del clown, il giornalista Marcello, protagonista di La dolce vita, ossessionato dal mondo dello spettacolo, dalla “scena” di via Veneto sulla quale si muove a suo agio, intriso di profonda malinconia e disillusione, spesso in bilico tra ilarità e tristezza, entusiasmo e cinismo.] con atteggiamenti melanconici e disillusi, entrambi parte integrante e irrinunciabile del bagaglio di pose clownesche.[Da non trascurare la collaborazione a quasi tutti i film di Fellini dei celebri clown Combaioni, proprio in qualità di consulenti per le sequenze circensi o nelle quali comparissero figure clownesche.] «Il cinema assomiglia moltissimo al circo. È probabile che se il cinema non fosse esistito […] e il circo fosse ancora un genere di spettacolo di una certa attualità, mi sarebbe piaciuto molto essere il direttore di un grande circo, perché il circo è esattamente un miscuglio di tecnica, di precisione e di improvvisazione» [Pecori, F., Federico Fellini, Firenze, La nuova Italia, 1978, p. 4.]. Se i personaggi di Fellini sono spesso clowneschi, altrettanto è possibile affermare per le situazioni rappresentate: valga per tutte, una citazione dal suo film forse più compiuto e significativo, 8 e ½, nel quale il regista cinematografico Guido (interpretato da Marcello Mastroianni, vero e proprio alter ego filmico di Fellini), preda di una crisi creativa e alle prese con un film da mettere in piedi, nel finale si ritrova a guidare – proprio come il direttore di un enorme circo – il girotondo di tutti i personaggi passati nel corso del lungometraggio, sulle note celebri della marcia composta da Nino Rota per il film, suonata, non a caso, da una sgangherata banda di clown.

Se per Chaplin, dunque, il circo è un mezzo per raccontare la vita, per darle un senso, per costruire una metafora capace di demistificarne le miserie e gli affanni, per Fellini quello che importa è lo spettacolo in sé e per sé: «Il cinema-verità? Sono piuttosto per il cinema-menzogna. La menzogna è sempre più interessante […] è l’anima dello spettacolo e io amo lo spettacolo. La fiction può andare nel senso di una verità più acuta della realtà quotidiana e apparente. Non è necessario che le cose che si mostrano siano autentiche. In generale è meglio che non lo siano. Ciò che deve essere autentico è l’emozione che si prova nel vedere e nell’esprimere» [Pecori, F., Federico Fellini, Firenze, La nuova Italia, 1978, p. 8.].

Inganno, mistificazione e candore assoluto nel porgerli allo spettatore sono dunque il tramite per pervenire a una parte dell’essenza della vita e dell’animo umano altrimenti insondabili con i soli strumenti della ragione.

La contrapposizione tra il bianco e l’augusto ha proprio la funzione di confrontare la razionalità del primo personaggio con la follia e l’istintualità del secondo: oltre che, ovviamente, ne I clown, l’altro film di Fellini in cui è più facilmente ravvisabile lo schema è La strada. La strana coppia Zampanò-Gelsomina costituisce un’entità in bilico ma, comunque, non priva di un suo equilibrio: il primo è un imbroglione da quattro soldi che gira con un carrozzone per la provincia italiana mettendo su uno sgangherato spettacolo (le catene che spezza con il torace sono già tagliate, la forza che ostenta è affatto relativa) cui serve il candore della sua partner per presentare gli spettacoli, renderli affascinanti, credibili, per lo meno accettabili. Zampanò, dunque, come bianco, colui che afferma una sua verità incontrovertibile (si autodefinisce “l’uomo più forte del mondo”) e che ha bisogno per farla credere vera della scempiaggine e del candore di Gelsomina, l’augusto. Al termine del film, quando Gelsomina decide di abbandonare Zampanò, quest’ultimo cade nell’angoscia, ormai rimasto solo, privato di un contraltare che aveva sempre disprezzato e al quale ora comprende di non poter rinunciare, pena la solitudine, ovvero l’impossibilità di confrontarsi con quell’altra parte di se stesso che è difficile (ma necessario) accettare.

 

(continua…)

 


 

Il Bacio dell'Orso (Bear's kiss) (Germania,2002) – Regia di Sergej Bodrov

Natale in India (Italia 2003) – Regia di Neri Parenti. Curiosità: Alcune sequenze sono ambientate al Circo Moira Orfei, girate durate la permanenza a Bergamo. Guarda il trailer su questo link

Big Fish. Le storie di una vita incredibile (USA 2003) – Regia di Tim Burton

Oceano di Fuoco – Hidalgo (USA 2004) – Regia di Joe Johnston. (il film è menzionato per la partecipazione di Frank Hopkins artista circense)

La Tigre e la Neve (Italia, 2005) – Regia di Roberto Benigni. Curiosità: La terza scena del film è ambientata al "Circo Montecarlo" della famiglia D'Amico. Per una frazione di secondi si intravvede Mario D'Amico mentre spazzola i 2 elefanti. Successivamente la scena si sposta sotto allo chapiteau dove Benigni viene invitato a salire su un cammello. La cosa più interessante è che a tenere il cammello si distingue chiaramente Daniel Berquiny, il carismatico preparatore di animali per il cinema e la televisione. Guarda il trailer su questo link

Questione di punti di vista (Francia, Italia 2009) – Regia di Jacques Rivette

 


 

PARADA

Italia-Francia-Romania 2009 – Genere Drammatico – Durata 95’

Regia di Marco Pontecorvo

Con: Jalil Lespert, Evita Ciri, Daniele Formica, Patrice Juiff, Cristina Nita, Gabriel Adrian Rauta, Robert George Valeanu

 

TRAMA

 

Il film si basa sulla storia vera di Parada, l’associazione fondata dal clown franco-algerino Miloud Oukili. Arrivato in Romania tre anni dopo la caduta del dittatore Ceausescu, l'artista incontra alcuni bambini che abitano nelle fogne e vivono di sfruttamento, in miseria e solitudine. È un amore a prima vista: Miloud conquista la fiducia dei ragazzi e, insegnando loro le arti circensi, riesce ad aiutarli a costruire una prospettiva di futuro in cui credere. Il film è per tutti ma, data la crudezza di alcune scene, per i bambini sotto i 10 anni è consigliata la visione in presenza di un adulto.

Guarda il film completo 


 

LA MERAVIGLIOSA AVVENTURA DI ANTONIO FRANCONI 

Italia 2011 – Genere Commedia – durata 91'

Regia di Luca Verdone

Con: Massimo Ranieri, Orso Maria Guerrini, Elisabetta Rocchetti, Sonia Aquino, Ernesto Mahieux, Laura Marinelli, Ruggero Monstert Manciati…

 

TRAMA

 

Un bambino prima di coricarsi sale nelle soffitta e scopre in un baule la pista del circo e i cavallerizzi di piombo con cui giocava un suo antenato. 

Vi è anche un vecchio libro che narra la vita di Antonio Franconi, leggendario pioniere del Circo Moderno, nato a Udine, che si esibiva in Francia tra il 1783 e il 1800, Il film propone la immaginaria rievocazione delle imprese di Antonio Franconi: la sfida impossibile di un cavallerizzo per realizzare uno spettacolo che contenga tutte le forme rappresentative sino ad allora conosciute. Uno spettacolo di tutti gli spettacoli.

A causa della sua passione per i giochi di carte, e per le avventure sentimentali, Franconi trascura la morale, i doveri familiari, e gli impegni assunti con i governanti parigini della Rivoluzione Francese. La realizzazione del suo sogno non si pone limiti e non si fa scrupoli, purché la riforma degli spettacoli equestri possa essere proposta agli spettatori parigini.

Ma ogni desiderio deve superare grandi ostacoli, e il suo amico Astley, un abile cavallerizzo inglese, compagno e ispiratore delle sue prime imprese, gli pone la domanda inquietante se tutto ciò per cui si è battuto abbia raggiunto il suo scopo. E’ un invito a non abbandonare il progetto che inseguiva sin dalla giovinezza.

La fortuna gli concede di vedere realizzato il sogno del Circo Olimpico, completato dai suoi figli Laurent ed Henry. E’ felice di abbandonarsi ai ricordi e al trionfo che gli tributa il pubblico parigino. Il bambino si è addormentato sognando gli avvenimenti della vita di Antonio Franconi che ha letto nel vecchio libro e quando si risveglia osserva dalla finestra della sua camera il tendone di un circo che sta per iniziare i suoi spettacoli.

Guarda il Trailer del film 

 

arrivederci a DOMENICA prossima (9. continua)

Giuseppe Calarota