Da oggi, in tutte le sale cinematografiche, esce la pellicola della storia di “un fenomeno di baraccone” che tentò di superare i pregiudizi: Mister Chocolat. Vogliamo condividere con voi, cari amici di Circus News, una recensione del film, tratta dalla Gazzetta del Sud, a cura di Marzia Apice, che, a nostro avviso, riteniamo molto interessante. Ve la proponiamo!

 

Le discriminazioni razziali e la lotta per sopravvivere di  chi è diverso, in una storia  vera che dai primi anni del  secolo scorso si proietta con impressionanti rimandi nel nostro presente: c’è tutto questo nel film “Mister Chocolat” di Roschdy Zem, che da oggi sarà distribuito nelle sale cinematografiche di tutta l’Italia in 140 copie da Videa, e che ieri sera ha aperto a Roma la sesta edizione del Festival Rendez-Vous, la rassegna dedicata al cinema francese.

Sullo schermo c’è l’attore cult Omar Sy (la star di “Quasi amici”), nei panni di Rafael Padilla, che fu davvero il primo artista nero della scena francese, la cui vita – in parte romanzata – si accompagna a quella del clown Footit (interpretato da James Thierrée), amico e partner sulla scena circense nonché la prima persona ad aver creduto nelle sue potenzialità.

Dapprima fenomeno da baraccone in un circo di periferia (dove impersonava manco a dirlo – un cannibale africano), Chocolat grazie all’incontro con Footit riesce ad arrivare nello splendore della Parigi della Belle Époque e la conquista.

Assieme al compagno, i due artisti portano il sorriso sulla bocca di migliaia di spettatori, grandi e piccini. Poco importa se Chocolat non abbia neppure un’identità (cosa che lo conduce anche in prigione), perché il successo è a portata di mano e con esso il miraggio di una vita felice. Ma mentre cresce la popolarità e l’amicizia con Footit, Chocolat cede alla debolezza, tra gioco d’azzardo, alcool e problemi di denaro, senza poter più contrapporsi alla violenza dei pregiudizi.

Tanto che né la decisione di mostrare a testa alta il proprio talento emancipandosi dal circo per approdare in teatro, né l’amore per una dolce infermiera riusciranno infine a salvarlo dalla rovina.

Da schiavo a star, da anonimo e rei etto a celebre clown, e poi ancora, di nuovo catapultato nella povertà e nella discriminazione: la parabola di Chocolat tocca il paradiso e l’inferno, scontrandosi da un lato con l’ottusità della società del primo Novecento, dall’altro con la sua stessa rassegnazione a una diversità sancita e «giustificata» dal colore della pelle.

 

Il colore della pelle

Una storia dolce amara, dunque, quella scelta dal regista, che tuttavia sottolinea la volontà di raccontarla senza vittimizzazione né pathos, ma solo mostrando un uomo con i suoi momenti di grandezza e decadenza. Chocolat si godeva la vita e approfittava di ciò che essa in quel momento gli dava. lo ho cercato di far dimenticare il colore della pelle».

Sebbene nella vicenda siano stati introdotti alcuni elementi di fiction (come l’incontro con Footit, che in realtà sarebbe avvenuto a Parigi, e l’esperienza della prigione «che serviva a dare al personaggio un carattere militante», ha sottolineato Zem), il film svela «la Francia dell’epoca e i suoi rapporti con gli stranieri». Ed è in questo che si innesta il legame con il presente dell’Europa: «Sembra di vedere ciò che accade oggi con gli immigrati: noi chiediamo loro di assomigliarci e non li accettiamo per quello che sono», afferma, spiegando però che «i parallelismi del film con l’attualità sono involontari: nella scena della prigione volevo creare un’eco con la ghettizzazione del presente, ma poi mentre giravo accadde l’attentato a Charlie Hebdo. L’attualità è sempre un passo avanti a noi, va più veloce».

«Diversità non è solo il colore della pelle, ci sono altri fattori come l’etnia, il sesso, l’handicap», conclude, «questo clown non aveva stato civile né nome, e fu sepolto come Chocolat: tentò di fare teatro e cinema, ma non riuscì mai ad aver altro ruolo diverso da quello che aveva al circo. Lui in fondo sapeva solo far ridere».