Ovvero una critica a concezioni elitarie e rétro
Difficilmente i miei saggi hanno un taglio polemico. Questione di stile personale e perfino di poetica. Per questa volta farò un’eccezione, nel tentativo di mettere la parola fine – almeno per quanto mi riguarda – a un’annosa, spesso denigratoria, ed inutile diatriba.
Troppo spesso, ancora oggi, assistiamo nel mondo del circo a una frattura: una divisione netta nel giudizio e perfino – se vogliamo – nel sistema dei valori.
La prima posizione è quella di chi considera imprescindibile nel circo il grande gesto tecnico: più il numero è difficile da eseguire e ardito, più è bello.

In questa chiave, semplificando, si potrebbe vedere il circo come una specie di sport estremo spettacolarizzato, sovente con poche protezioni ma con un contorno estetico: costumi luccicanti, musiche (spesso di genere), luci brillanti e rullo di tamburi. Qualche volta ci può essere perfino una regia, ma solo se la produzione è di alto livello. Può essere anche in salsa contemporanea: basta cambiare l’estetica e inserire qualche elemento narrativo. Tuttavia, gli ingredienti fondamentali sono sempre gli stessi: il virtuosismo corporeo, l’abilità individuale, la temerarietà.
In sintesi, questo tipo di concezione del circo si potrebbe definire “superomistica”.
Certamente tra i lettori di CircusNews è l’idea che va per la maggiore. Perché il Festival del Circo di Monte-Carlo è un riferimento indiscutibile? Perché vi partecipano grandi artisti da tutto il mondo che esprimono un livello tecnico superlativo, individualmente o in troupe. Il valore tecnico è imprescindibile e i numeri, quasi sempre irriproducibili, non corrono quasi mai il rischio dell’imitazione.
A questa concezione superomistica, assolutamente tradizionale, se ne può affiancare un’altra, con la clownerie nel mezzo, a prendere in giro entrambe.
Questa seconda idea di circo, che definirei “umanista”, prevede che i gesti tecnici siano puramente strumentali a dare emozioni al pubblico in un contesto artistico più ampio e variegato. La tecnica delle varie discipline resta importante, ma il virtuosismo fine a sé stesso non è più il protagonista assoluto: che conta davvero è lo spettacolo nella sua interezza, in particolare per come viene percepito dal pubblico.
Tipicamente, l’esperto di circo tradizionale, esce impettito dallo chapiteau di un circo contemporaneo d’avanguardia, magari ibridato con il teatro e la magie nouvelle, affermando perentorio: “Troppo poco circo!”
E si stupisce che la gente sia restata stupefatta da quei semplici gesti atletici, che qualsiasi individuo può compiere anche solo dopo un paio d’anni d’esercizio costante. Viene il sospetto che costui nulla abbia compreso del resto, che non sia riuscito a cogliere lo spettacolo nel suo significato e nella sua interezza, completamente assorbito a osservare il tremolio d’un muscolo o l’inclinazione imperfetta d’una verticale.
C’è di peggio. Il suddetto esperto può arrivare a dire: “Questo non è circo!”
Per poi lambiccarsi alla ricerca di qualche altra definizione astrusa.
“È teatro! Anzi, è teatro-magia con inserti d’arte di strada! No, ci sono: è arte performativa!”
Giusto. Arte performativa, che in questo contesto vuol dire tutto e niente.
Personalmente, queste forme d’arte le chiamo comunque circo, ma ammetto che a livello comunicativo, per la stampa di cui oggi gode il circo in Italia, forse sarebbe più vantaggioso per alcune di queste compagnie essere annoverate nell’alveo dell’arte performativa.
Inoltre – ma è solo una nota a margine – posso accettare senza stracciarmi le vesti che in uno spettacolo di circo nessuno rischi di rompersi l’osso del collo, ma questa è una questione di sensibilità individuale. Il rischio è la linfa vitale di alcune discipline circensi, e non può essere eliminato del tutto senza rinunciare ad alcuni colori emozionali.
Esiste anche il caso che il circo di regia, con contenuti emotivi ed esistenziali, possa includere dei gesti tecnici di alta qualità. Tuttavia, non ha senso siano estremi: sopra un certo livello qualitativo le sottigliezze tecniche le notano solo gli addetti ai lavori, mentre per il pubblico sono del tutto irrilevanti. Anzi, un numero troppo difficile rischia inevitabilmente di fallire spesso, lasciando il rammarico dell’incompiuto negli spettatori. Poi, che conta è l’insieme dell’opera, quello che comunica profondamente in quanto arte, non la prodezza del singolo.
È possibile quindi anche un’estetica dell’anti-superuomo, un anti-eroismo circense, un umanismo del limite, che riconosca ed esprima la fragilità umana e la precarietà esistenziale. Chi svilisce questa dimensione dell’arte, che per altro nella clownerie è sempre esistita, è semplicemente poco aggiornato; oppure apprezza concezioni elitarie e rétro che non mi appartengono.
Nel circo di oggi, se vogliamo parlare davvero di arte, il puro gesto tecnico, per quanto straordinario e irripetibile, non è più sufficiente; se per qualcuno è condizione necessaria, per me è piuttosto condizione non sufficiente.











