SIDE KUNST-CIRQUE / MY! LAIKA: Winter, una primavera dell’arte

Avatar Armando Talas

Reggia di Colorno, undici di sera.

Lo chapiteau bianco e nero del Side Kunst-Cirque sorge in una radura isolata, come l’apparizione spettrale in una foresta delle fiabe. Tutto intorno i giardini sono inghiottiti dal buio. In lontananza si avverte il fracasso smorzato di altri spettacoli, altrimenti parrebbe davvero di essere in un bosco stregato.

Raramente ho trovato uno spettacolo così difficile da recensire, così stimolante. È una rete di enigmi, di fili intrecciati, di immagini deformate, come in un’opera cubista dove il tempo frantuma le forme. Non c’è una trama lineare. Tuttavia, la sensazione finale è che ci sia un preciso quadro d’insieme.

In una delle prime scene un’elegante statua classicheggiante va in pezzi. Prima si stacca la testa, poi anche il resto del corpo si rompe. La forma originale può essere ricomposta, i quattro artisti possono ricostruire provvisoriamente la figura, ma la statua è a pezzi e ogni frammento rivela una nuova forma. Lo spettacolo è esattamente così: frammenti separati di tridimensionalità emotiva, che uniti compongono una scultura esistenziale.

Già l’ambientazione è misteriosa. Siamo in una casa museo abbandonata, piena di ombre. Una registrazione stile audioguida descrive un quadro appeso alla parete: rappresenta una nobildonna, che si lascia intendere abbia compiuto un insano gesto. Le mani non si vedono nel dipinto e la voce registrata del critico d’arte ipotizza nascondano una pistola. Vicino c’è una porta, che dà su un’altra dimensione. All’inizio ho pensato che oltre la soglia infuriasse la bufera, anche visto il titolo dello spettacolo – Winter – ma poi ho compreso: una porta sull’altrove, che conduce fuori dalla scena, nel mondo reale o in altri mondi.

Da questo altrove arrivano i quattro personaggi che animano la vicenda, ma non solo da lì. A volte una delle protagoniste entra in scena dalle gradinate dove siede il pubblico, rendendo la quarta parete assolutamente fluida. Però chi proviene dalla porta arriva da molto più lontano e pare sia sfuggito alle tempeste della vita, per esempio entrando in scena con le scarpe piene d’acqua, che si versa copiosamente in scena durante un numero acrobatico.

Fuori il mondo è ostile, gelido, assurdo. Dentro regna la ricerca di soluzioni. Si cerca il conforto in così tanti modi. Tutto brilla di simboli ben scelti. Uno di questi è la forbice che taglia con il passato. Di forbici ce ne saranno tante, e affilate, fino a comporre una scultura metallica che servirà per un numero di abilità e verrà tenuta in equilibrio sul capo da uno degli artisti.

Un’altra delle altre soluzioni tentate è la musica. Gli artisti provano spesso a suonare: chitarra, basso, violoncello, pianoforte! Un vecchio pianoforte scassato, che fa parte dell’arredo della casa museo, avrà un ruolo significativo.

E poi ci sono le cadute. Per esempio il precipizio dell’alcol: una delle artiste inscena l’ebbrezza e la caduta, svenendo ubriaca proprio mentre tenta di suonare il pianoforte. Si medita anche sul suicidio, in un rimando riuscitissimo al quadro della nobildonna, che come un fantasma aleggia sempre. Si fuma in scena senza remore: un piccolo vizio, fragile e fugace soluzione al disagio dell’esistenza.

Alla fine dello spettacolo mi si è chiarito il senso del titolo: Winter.

L’inverno della vita, preludio alla morte. Ma anche occasione di rifugio dal gelo e dalle intemperie, occasione di meditazione sull’esistenza. E poi, come mirabilmente detto in una delle scene iniziali, prima che perfino le sedie volassero e le persone finissero a fumare a testa in giù, le stagioni si susseguono. Questa, per l’arte, è una primavera.