Pubblichiamo con piacere il primo di una serie di racconti brevi dedicati al Circo a firma del Dott. Angelo D’Ambra, che vanno ad arricchire la nostra rubrica “Parole di Circo”.

Angelo D’Ambra, classe 1982, è laureato in Scienze Politiche e si occupa di divulgazione storica per il sito historiaregni.it. Collabora con la casa editrice D’Amico e con portali web di storia nordamericana, tauromachia, musica e cinematografia.

Mi destò una treccia di voci argentine e grasse e riconobbi subito il lezzo del paiolo, lo scoppiettare d’un fuoco, lo sparnazzarsi giocoso di note di fisarmonica. Mi guardai attorno. Non volli abbandonare quel giaciglio gitano, rinsavire, riprendermi. Nelle terree voluttà, alla deriva nelle graminacee, avevo trovato l’abbaglio del numinoso. Occhi e capelli, ossidiana e tussah. Cosce e seni, prosciutti e melograni.

Remeggiai per istanti cadenti, mi crogiolai in un sogno annacquato. “Andiamo?”. Non le risposi, ma mi toccò. “Su che fai lì bloccato!”. Corremmo liberi. La piccola acrobata ci venne incontro con la sua gigantesca ruota, guardata a vista dal nano.

Al desco dei folli, cappellacci sudici, unghia nerigne, una gazza, giocolieri, caprette, indovine e addestratori di cavalli. Si danzò, poi, nelle nebbie del vino. Piedi, mani, caviglie sul tavolo rimescolate e triviali risa, irruenti piogge di mondi. Lei ruotava come un fuso, mi chiese la bottiglia e riprese a prillare, seducente, viva. Calpestava il tavolo, m’ingannava con le ondose vesti e di tanto in tanto si chinava a donarmi baci. “Balla con me”, supplicò ed io incominciai, sì, ma un balenio di fiaccole irruppe negli occhi sbigottiti della piccola acrobata. Non so come, tutti ce ne accorgemmo e la musica cessò.

Immense fiamme demoniache dai volti imporporati d’odio ci portarono il panico, la paura, lo scompiglio. Garrirono rosse di sangue nella notte, si scagliarono con veemenza su quella combriccola di saltimbanchi e chiromanti avvinazzati. Patimmo l’orrore, l’urlo disperato del rovente abbraccio. Ci colpirono brucianti, ci trafissero e nel trambusto smarrii la mia ballerina. Cavalli e capre impazzirono, Annibale resisteva facendo squillare la sua proboscide. Che insensatezza quel pagliaccio che tentò la fuga sul monociclo tra le orifiamme. Fu una tempesta di scudisciate bollenti, i carri finirono in un rogo di lingue porporine ed incandescenti. Alto si levava il fuoco incendiario delle vampe torreggianti e caldissime. Zampillavano tutt’intorno dardi escandescenti. Il loro miasma fumoso colmava le narici e costringeva gli occhi a lacrimare. Fui obbligato a darmi riparo, provai a correre, ma inciampai nello strazio di circensi accasciati e presi a scuoterli uno ad uno, sperando che fossero solo storditi. Cercai ancora la mia ballerina, ma senza trovarla. Sentii frignare. Guardai oltre. La piccola acrobata piangeva nell’esanime abbraccio del nano accorso a salvarla.

Poi mia madre mi scosse: “Marco! Marco!”. Fu alle mie spalle, impugnò le barre di spinta e allontanò la sedia a rotelle dalle alte fiamme del camino acceso. Stetti ad osservar da lontano la litografia di gitani che vi campeggiava sull’architrave. Sorrisi, i miei amici erano salvi.

Angelo D’Ambra