Musica drammatica, occhi spalancati, Yuri guarda i bimbi seduti, guarda la balestra, guarda la moglie e mira alla carta da gioco sulla sua testa finché con suono secco la freccia vi si conficca in mezzo. Applausi. La coppia scappa nel retro per recuperare la bambina di due anni e mezzo e prepararsi alla cena.

Scene da un matrimonio: sono le sette e mezza, mentre corre verso la roulotte Veronica mi mostra una piccola cicatrice sulla fronte. Capita, se tuo marito ti lancia frecce e coltelli.

Qualche rischio te lo devi prendere, però non faresti cambio con nient’altro.
Lo dicono tutti qui al Circo Orfei approdato a Mazzano (parcheggio Auchan, domenica spettacoli alle 17.30 e alle 21). Nel villaggio mobile sono innamorati della vita nomade, dei numeri arditi, del pubblico. Chiedi a uno di loro “di dove sei?” e diranno “sono di qui”. Intendendo il circo, dove sono tutti nati e cresciuti viaggiando. Hanno passato una vita in viaggio. Come Belinda, che si trucca nella sua roulotte circondata da statuette di fate come lei, che chiude lo spettacolo volteggiando sopra la pista attaccata per i capelli. “C’è un segreto per farlo, ma non c’è un trucco” dice esibendo il Sorriso da Circo.

Comunque no, restare appesa per i ricci non fa male. I suoi due gatti sono sdraiati al sole, legati al guinzaglio. Metti che scappano, ritrovarli è quasi impossibile cambiando città ogni settimana. La prossima si va a Piacenza. Lei sta provando ad addestrarli, “ma sono testoni”. In sottofondo Nicola Di Bari canta “Il cuore è uno zingaro” mentre poche roulotte più in là si vestono Nieves, figlia di Belinda, e Sue Ellen, la cugina contorsionista. Alla parentela, da queste parti, non si sfugge.

E poi qui non si butta via niente e così chi tiene in equilibrio spade affilate sulla bocca dieci minuti prima era lì a vendere pop corn all’ingresso.
La felpa al posto delle paillettes. Il direttore, Elvio Anselmi, oltre a mandare avanti la baracca cammina sul filo a tre metri d’altezza, salta nel cerchio di fuoco e poi torna a dare ordini. In tutto, ci sono una cinquantina di persone, tra tecnici e artisti, da gestire. Alcuni restano a lungo, anche più di un anno, alcuni solo per qualche settimana. La specialità di Elvio? “Rompere le scatole”.

L’unico a cui non le rompe è Nando Orfei, suo zio. Una gamba mezza mangiata da una tigre, un braccio che quasi una pantera glielo stacca e la schiena spaccata a furia di portare avanti e indietro il leone lungo la pista. Sulle spalle. “Mi sono pentito di aver lavorato con gli animali. Andava bene per gli antichi romani, il circo ora deve essere abilità assoluta”. Senza contare che Paolo Orfei, con cavalli ed elefanti, l’anno scorso se ne andò da Brescia tra le polemiche degli animalisti. Nando ha 78 anni, un bisnonno spretato che si era innamorato di una zingara dando vita alla stirpe e negli occhi tutte le strade (“Non riesco a stare nello stesso posto come i gagi, i fermi”), tutti i leoni (“Per loro resti sempre un piatto di spaghetti, non puoi pensare di averli addomesticati”), Fellini che gli è amico (“Uno dei pochi”) e Fellini in ospedale che muore. Piange ancora, a pensarci.

Lo spettacolo è dedicato a lui e Nando si siede tra il pubblico. Osserva Elvio.
“Oggi c’ha il pentimento”, nel senso che sul filo è meno deciso. “Non è che tutti i giorni è uguale”. Un brivido di freddo: “Ho passato la mia vita a torso nudo, mai neanche un raffreddore. Ora ho sempre la giacca e ne prendo uno al giorno”. È il capo tribù assieme alla moglie Anita. Amatissima.

A metà spettacolo va a prepararsi dietro le quinte per il finale, il momento in cui appare in scena, in casa sua. Il tendone brilla di luci e musiche. “Il circo… il circo è vero, diceva Fellini. Qui uno su diecimila ce la fa, altro che mille, ricordatelo!”, dice Nando Orfei. È già tempo dei saluti al pubblico prima che ci si cambi per staccare i biglietti, vendere i pop corn, mettere a letto le bimbe, sistemare il trucco. Poi si ricomincia tra gli applausi.

Emanuele Galesi – giornaledibrescia.it