In queste ultime settimane che ci avviano alla conclusione della nostra rubrica cinematografica, voglio proporre una rubrica nella rubrica e parlare di una figura particolare del mondo circense inserito nel cinema: il clown. Premetto che, ciò di seguito pubblicato, è tratto da uno studio approfondito fatto da Fabrizio Colamartino. Lo ritengo, a parer mio, interessante e lo voglio condividere con voi.

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Uno studio della figura del clown a partire dall’immagine che ne ha dato il cinema potrebbe apparire come un’operazione pretestuosa e fuorviante: perché non analizzare questo personaggio direttamente nei suoi contesti naturali: il circo, il teatro, la strada? Se queste dimensioni sono certamente quelle in cui il clown ci si presenta nella sua versione più originaria, quella di una figura capace di avvicinarsi più di ogni altro personaggio dello spettacolo a qualsiasi tipo di pubblico per coinvolgerlo in una dimensione altra, astratta, eppure anche profondamente umana, il cinema è riuscito, grazie alla propria capacità di narrare per immagini, a mettere il clown al centro di storie, vicende e situazioni più concrete, forse meno poetiche e stilizzate, ma anche più complesse, spesso capaci di avvicinare questa figura allo stesso tempo goffa ed eterea alla realtà, investendola di caratteri inediti.

 Non è un caso se il cinema, nei suoi primissimi anni di vita, cresce e convive a fianco dei circhi, dei baracconi da fiera, dei parchi di divertimento, luoghi nei quali il clown è di casa. Dopo aver sfruttato la contiguità con tali dimensioni spettacolari già ampiamente affermate (ma, allo stesso tempo, pagando lo scotto di essere a esse assimilato, quanto a banalità e volgarità), ben presto il cinema le sostituirà del tutto o quasi nelle preferenze del pubblico e moltissimi artisti provenienti dal varietà, dal vaudeville e da forme teatrali considerate minori, plebee e volgari dalla cultura ufficiale spesso troveranno nel cinema oltre che fama e ricchezza anche un riconoscimento culturale che altrimenti non avrebbero ricevuto.

Lungi dal compiere una banale operazione di trasposizione, di duplicazione dello spettacolo circense, il cinema, oltre a porre la figura del clown al centro delle proprie narrazioni, ha creato un’affollata galleria di personaggi da essa ispirati. Personaggi che hanno preso corpo proprio grazie alla natura del mezzo cinematografico e che a quest’ultimo sono riusciti a dare, in uno scambio virtuoso esemplare, nuove forme e modi della rappresentazione: si pensi soltanto a quanto il linguaggio cinematografico, la codificazione dei generi classici, il sistema produttivo degli studios debbano al genere comico, allo slapstick, insomma a figure come Mack Sennett, Charlie Chaplin, Buster Keaton, Harol Lloyd, Stan Laurel e Oliver Hardy e tanti altri protagonisti delle cosiddette “comiche finali”.

Ma c’è di più: il cinema riesce a dare alla figura del clown non solo una platea virtualmente aperta a milioni di spettatori, ma anche e soprattutto storie ambientate fuori dalle scene teatrali e circensi, uno sfondo sociale e storico molto più concreto, non solo nei termini di un banale realismo, ma soprattutto in quelli di un forte legame con tematiche attuali, legate alla contemporaneità di tutto il Ventesimo secolo. L’efficacia del “trapianto” del clown all’interno della realtà attraverso il cinema diviene evidente analizzando i casi inversi, ovvero quelli in cui si mettono in scena vicende di veri e propri clown ambientandole nei luoghi canonici della rappresentazione clownesca (circhi, teatri, eccetera). Se calare il clown o gli interpreti/personaggi che è possibile assimilare a questa tipologia attoriale nella realtà del quotidiano è un’operazione dirompente, capace di sovvertire regole e convenzioni sociali attraverso il meccanismo comico, far agire gli stessi personaggi all’interno di un contesto teatrale o circense depotenzia l’azione burlesca. I grandi comici cinematografici, che nelle loro prove migliori hanno saputo trasformare ogni ambiente in una pista da circo, una volta inseriti nell’ambiente circense non ottengono un risultato altrettanto travolgente, tutt’altro. Il meccanismo comico si basa, infatti, essenzialmente sulla differenza, sul mettere un elemento fuori luogo, nell’inserire un corpo estraneo (e quanto il corpo c’entri con la comicità risulta fin troppo evidente) all’interno di una situazione convenzionale: la straordinarietà del circo, la sua spettacolarità, impediscono di percepire il clown come elemento estraneo, mentre proprio il contrario avviene con il cinema che della descrizione della realtà, (dell’ordinario, della quotidianità) fa la sua caratteristica principale.

Il cinema, probabilmente molto meglio di qualsiasi altra forma di rappresentazione, oggi può aiutarci a individuare una serie di definizioni, di stereotipi e di figure caratteristiche della clownerie, accompagnandoci nella comprensione dei meccanismi che si trovano alla base della comicità. Questo perché alcune figure clownesche create dagli autori comici del grande schermo sono probabilmente molto più presenti nel nostro immaginario di quanto non lo siano coloro che, ancora oggi, sono i depositari di una tradizione importantissima ma che si rivolge a una platea numericamente più limitata. Vediamo, dunque, in quale modo alcuni grandi autori di cinema (comico ma non solo), siano riusciti a riflettere i disagi, le ansie, le urgenze, i cambiamenti della società rielaborando la figura del clown nei loro film.

 Keaton e Chaplin, due clown travolti dal circo della vita

Se è possibile affermare che tutti gli attori/personaggi comici del cinema muto posseggono caratteristiche clownesche[Si pensi, ad esempio, alle fattezze e alla gestualità di Roscoe “Fatty” Arbuckle, Stan Laurel, Ben Turpin, tutti provenienti non a caso dal vaudeville.], dovute essenzialmente al trucco esasperato e alla mimica eccessiva necessari per rendere evidenti espressioni, emozioni e azioni più difficili da decifrare al cinema che non nella realtà a causa dell’assenza del suono, l’aura di astrazione creata da Charlie Chaplin e Buster Keaton attorno ai due personaggi portati sullo schermo in centinaia di comiche e film, fanno di questi due autori dei veri e propri clown e, in particolare, i rappresentanti delle due principali tipologie clownesche della tradizione circense. Da un lato Chaplin, imbroglione (specie nelle sue primissime apparizioni sul grande schermo, quando ancora la maschera del piccolo vagabondo non aveva assunto i connotati patetici acquisiti nelle opere della maturità), vagabondo, scansafatiche, burlone e pasticcione, incapace (e neanche desideroso) di integrarsi socialmente è il tipico “augusto”. Anche il suo abbigliamento suggerisce tale accostamento: scarpe enormi, pantaloni larghi tenuti su a fatica da una cordicella, mimica facciale spesso vivace ed esasperata. Dall’altro Keaton, all’apparenza socialmente più integrato, caratterizzato dall’essere spesso “competente” e dall’avere un ruolo ben preciso (cameraman, ferroviere, eccetera), sempre alle prese con un compito da portare a termine (che, puntualmente, naufraga più che per l’incapacità del personaggio, per gli ostacoli che si frappongono fatalmente tra lui e lo scopo), dotato di un abbigliamento pressoché normale (a volte di una vera e propria divisa) e di una maschera impassibile, caratterizzata dal pallore eccessivo, proprio come il cosiddetto “bianco” della tradizione. Se nel caso del personaggio creato da Keaton, all’apparenza preparato per affrontare il confronto con la realtà, assistiamo a una vera e propria “rivolta degli oggetti” che si ribellano e sembrano assumere vita propria, con lo sprovveduto Charlot a volte gli stessi oggetti sembrano piegarsi spontaneamente a un uso poetico da parte del protagonista (si pensi alla danza dei panini in La febbre dell’oro), paiono collaborare e agevolarlo nelle sue imprese.

Del resto, tanto Chaplin quanto Keaton provenivano dal vaudeville che con il circo aveva molto in comune, specie per i numeri di abilità e acrobazia: Keaton, ad esempio, ebbe il suo nome d’arte – “Buster” ovvero “rompicollo” – da Houdini che lo aveva visto esibirsi a tre anni insieme ai genitori, attori di varietà. Se Keaton porta all’estremo il lato “catastrofico” dell’agire clownesco, Chaplin incarna nell’immaginario collettivo molto più spontaneamente l’idea del clown, riuscendo a sintetizzarne, attraverso il personaggio dell’omino vagabondo con baffetti e bombetta, il prototipo cinematografico. Si tratta, infatti, di una figura che fa leva sul lato patetico delle situazioni, sull’alternanza tra ilarità e tristezza, sull’assenza di un ruolo sociale definito oltre che, come detto, su un abbigliamento molto simile a quello dei clown del circo.

Non è un caso, dunque, se due dei film più celebri, significativi e commoventi di Chaplin siano dedicati proprio all’ambiente circense e ai suoi protagonisti. Si tratta di una delle eccezioni eccellenti che confermano la regola poco prima evidenziata: se nella maggior parte dei casi la messa in scena cinematografica della clownerie all’interno dell’ambiente circense vede depotenziato l’effetto di spiazzamento prodotto dall’inserimento di questa figura in una dimensione “normale”, in Il circo siamo di fronte a un netto ribaltamento. Attenzione, però: nel film Charlot, come sempre inseguito da un poliziotto, trova rifugio e lavoro in un circo (entra in pista nel corso dello spettacolo e viene scambiato per un vero clown, scatenando l’entusiasmo del pubblico con gli inconvenienti che crea). Il suo essere spontaneamente pasticcione, la sua “abilità” nel mettersi nei guai, all’interno della dimensione rovesciata del circo, parrebbe agire, al contrario che nel mondo normale, come un valore aggiunto, una dote. Una dote che, tuttavia, funziona fino a quando non viene irreggimentata all’interno degli schemi rigidi dello spettacolo programmato: i numeri e le evoluzioni “improvvisate” la prima volta, il giorno dopo non scatenano l’ilarità e, così, l’omino si ritrova destinato a più umili mansioni, ovvero, proprio come nella società normale, all’ultimo gradino della scala gerarchica.

È in questo ruolo (di clown declassato sulla scena circense) che il clown-Charlot può realmente funzionare (soprattutto in senso cinematografico): il mondo del circo rivela la sua essenza di universo paradossalmente ancora più violento e assurdo di quello normale, con in più una carica di irrazionalità che trasforma ben presto la vita del protagonista in un incubo. Il circo e la comicità del clown in questo caso divengono un distillato – urticante per verità – della dura realtà della vita normale (ammesso che si possa definire tale quella vissuta da Charlot fuori dal circo). Girato poco tempo dopo lo scandalo che lo coinvolse e che gli costò il pubblico linciaggio da parte della società statunitense, il film è probabilmente – e paradossalmente – tra i più pessimisti di Chaplin. Il messaggio contenuto nel finale del film è fin troppo evidente: il circo parte e, dietro di sé lascia un cerchio di segatura sul terreno e una stella di carta con cui Charlot, rimasto solo, gioca malinconicamente. Se il circo è stato per la durata del film una metafora esasperata della società, Chaplin lascia che esso parta per nuove illusorie mete, permettendo al protagonista se non altro un momento di pace e di solitudine.

È un tema, quello dell’artista che non ha un suo posto nella società, sul quale Chaplin tornerà a confrontarsi in uno dei suoi ultimi film, Luci della ribalta, considerato una sorta di testamento morale: la vicenda di Calvero, clown del varietà caduto in disgrazia, depresso e alcolizzato, è un concentrato di elementi tratti tanto dalla vita del regista quanto da quella del padre, anch’egli artista del vaudeville, fallito, alcolizzato, morto in miseria. Lo spettacolo di varietà e soprattutto ciò che vi ruota intorno (le miserie di un’esistenza in balia del capriccio degli impresari e del pubblico, l’angoscia dell’artista che teme di aver perso il suo talento, la necessità di rinnovare un repertorio che, per forza di cose, risulta limitato), ancora una volta assume il valore di una metafora della vita, quella di qualunque uomo ma soprattutto dell’uomo Chaplin che qui si ritrova a fare il bilancio di un’esistenza vissuta sulla scena e per la scena, spesa per un pubblico che, tuttavia, alla prima occasione ti abbandona, privandoti dell’unica ragione di vita.

Proprio in questo film così intriso di malinconia e disillusione ritroviamo a fianco di Chaplin, in un indimenticabile numero musicale, proprio colui che avevamo indicato come l’altro comico del muto capace di incarnare lo spirito del clown, ovvero Buster Keaton. Non è un caso, anche perché Keaton, molto più di Chaplin, dovette confrontarsi con tutte le difficoltà e le umiliazioni cui può andare incontro un artista della scena comica: caduto in disgrazia, al contrario di Chaplin (che, comunque, aveva saggiamente amministrato il proprio patrimonio) Keaton si ritrovò sul lastrico, screditato di fronte ai produttori e al pubblico, arrivando negli ultimi anni di vita ad accettare, per poter sopravvivere, particine in film di cassetta[È il caso dell’improbabile Due marines e un generale (regia di Luigi Scattini, Italia, 1965) nel quale il grande comico statunitense si ritrova al fianco di Franco Franchi, Ciccio Ingrassia e Lino Banfi, in un tentativo di parodia del genere bellico di infimo livello.], tranne che in rarissimi casi, come appunto in Luci della ribalta o in Viale del tramonto di Billy Wilder. Nella coppia di anziani commedianti che nel film di Chaplin si danno da fare per far ridere il pubblico si ritrovano sintetizzate tutte le caratteristiche principali della figura del clown: il suo essere plebeo ma allo stesso tempo estremamente aristocratico, la sua diversità ed eccentricità rispetto al canone sociale, la condizione di povertà ed estremo bisogno, la situazione di continuo scacco e imbarazzo di fronte agli altri. Sono elementi distintivi della condizione umana che mettono l’accento su alcune caratteristiche dell’esistenza, capaci di accomunare tutti ma che, allo stesso tempo, puntano a evidenziare come ognuno si ritrovi, prima o poi, solo di fronte alle difficoltà della vita, spesso incompreso o addirittura deriso dagli altri.

(continua…)

Proseguiamo ora con la nostra carrellata di titoli:


Quando il circo venne in città (When the Circus Came to Town) (USA, 1981) – Regia di Boris Sagal

Il Cielo Sopra Berlino (Der Himmel über Berlin) (Germania 1983) – Regia di Wim Wenders –

Qualcosa di Sinistro Sta per Accadere (Something Wicked this Way Comes) (USA, 1983) – Regia di Jack Clayton

James Bond 007 Octopussy (Octopussy) (Gran Bretagna, 1983) – Regia di John Glen

BARNUM RE DEL CIRCO (Barnum) (USA, 1987) – Regia di Lee Philips

TRAMA

La vera storia di Phineas Barnum (1810-91), vero padre del moderno spettacolo circense. Dagli inizi, quando, ragazzino, organizzava lotterie, al culmine della sua carriera e alle innovazioni da lui portate nell’arte del circo. Il film, di pregevole ambientazione, è un vero e proprio show di Burt Lancaster, che ha esordito proprio come acrobata insieme al fratello.

Indiana Jones e l’Ultima Crociata (Indiana Jones and the Last Crusade) (USA, 1989) – Regia di Steven Spielberg.

Così Lontano così Vicino (So Far, so Close) (Germania, 1993) – Regia di Wim Wenders

SPARA CHE TI PASSA (Dispara!) (Spagna 1993) – Regia di Carlos Saura. LA TRAMA: Ana è un’acrobata da circo la cui specialità è sparare da un cavallo in corsa. Un giornalista, Marcos, la frequenta e se ne innamora, ma una notte, assente Marcos, la donna viene violentata da tre giovani meccanici. Ana si apposta vicino al garage dove i tre lavorano e li uccide tutti a fucilate. In tutto il paese si scatena la caccia alla cavallerizza vendicatrice e nemmeno Marcos riesce a salvarla…

I Mitici – Colpo Gobbo a Milano (Italia 1993) – Regia di Carlo Vanzina.

Luna e l’Altra (Italia, 1996) – Regia di Maurizio Nichetti

I Magi Randagi (Italia, 1996) – Regia di Franco Citti.

BIG FISH

Gran Bretagna 1997 – Genere Commedia – durata 110′

Regia di Stefan Schwartz

Con Stuart Townsend, Dan Futterman, Kate Beckinsale, Ralph Ineson

TRAMA

Due orfani sui vent’anni, Jez inglese e Dylan americano, sono super qualificati ma anche sottooccupati. Dylan, americano dalla bella parlantina, ha la capacità di dire sempre la cosa giusta al momento giusto. Jez non spiccica una parola ma come tecnico offre garanzie di sicuro rendimento. Così decidono di mettersi a vendere prodotti tecnologici ultramoderni a società ricche e potenti. Il loro obiettivo è quello di guadagnare un milione di sterline ciascuno e di comprare una grande villa in campagna. Le cose sembrano andare bene, finchè i due, che si servono come segretaria di Georgie, una ragazza che studia medicina e fa assistenza in ospedale, non vengono messi di fronte a responsabilità più grandi. Georgie ha una sorella e un fratellino down e appartiene ad una nobile famiglia decaduta, sta per sposarsi con un ricco che non ama e che vuole concludere il matrimonio solo a fini speculativi per cacciare la comunità down dalla propria sede. Quando Dylan e Jez sono in carcere, la ragazza trafuga i soldi accumulati dai due, abbandona al momento delle nozze il marito designato ma resta invischiata nei traffici di lui. Solo un nuovo intervento di Jez e Dylan appena usciti fa sì che i bambini possano mantenere la loro casa. Nel frattempo Jez viene ricambiato nel suo amore per Georgie, la cui sorella fa lo stesso con Dylan.

A bug’s life: megaminimondo (USA 1998) di John Lasseter e Andrew Stanton – animazione

La Ragazza sul Ponte (La Fille sur le pont) (Francia 1999) -Regia di Patrice Leconte.

arrivederci a DOMENICA prossima (8. continua)

Giuseppe Calarota